Lettera da Parigi
La Francia che si risveglia in queste settimane alla quotidianità della ripresa autunnale, dopo l’estate più torrida del secolo, gravida di devastazioni del suo patrimonio boschivo ed agricolo, appare attonita, quasi smarrita di fronte all’affollamento di segnali contraddittori, talvolta minacciosi, che arrivano da tutti gli indicatori, economici, sociali, politici.
Non appare ancora compiutamente digerito – e metabolizzato – lo choc post-elettorale, dopo l’“indigestione” delle due consultazioni successive, presidenziale e legislativa, ed il limbo di un inedito combinato-disposto fra la conferma di Macron e l’insediamento di una Assemblea Nazionale frammentata e litigiosa. Il responso, in qualche modo contraddittorio, delle urne fra aprile e giugno ha cioè, in stridente controtendenza con la tradizione della Quinta Repubblica, collocato stavolta l’Esecutivo in una situazione di incertezza e talora di stallo, sottraendogli lo “strumento-principe” immaginato dagli artefici della Costituzione gollista, vale a dire il quasi-automatico conseguimento, per un effetto “coat tail” alla francese, di una maggioranza assoluta specularmente (e talvolta passivamente) rispondente al progetto presidenziale.
E una crescente ed esplicita accusa di amletico smarrimento non viene formulata soltanto a carico del Presidente, cui la maggioranza dei commentatori di ogni parte politica imputa ormai apertamente la mancata individuazione di un chiaro obiettivo da perseguire nel suo secondo mandato, in base a linee programmatiche ben definite; ma investe altresì le opposizioni ed il tessuto sociale nel suo insieme, lacerato fra avversione preconcetta alla possibile dialettica del dialogo e del compromesso parlamentare, perduranti lotte intestine di potere in seno agli schieramenti tradizionali e tentazioni alla rottura e alla mobilitazione di piazza, fomentate irresponsabilmente dalle sempre più avventuristiche prodezze, in patria e all’estero, del tribuno Mélenchon.
Le critiche mosse all’Esecutivo e al tandem Macron-Borne, ormai rodato ed operativo, appaiono per alcuni aspetti ingenerose e sembrano non tenere in conto – soprattutto per chi voglia valutarle anche comparativamente nel più ampio contesto inter-europeo – alcuni concreti e positivi risultati già conseguiti. Specie nella sessione parlamentare estiva, e grazie ad un abile e tenace destreggiamento nel gioco parlamentare, fra aperture ed intransigenti respingimenti di “aiutini” poco graditi ( provenienti soprattutto dall’ala destra dell’emiciclo), Elisabeth Borne ed i suoi ministri si sono garantiti l’approvazione del pacchetto sul potere di acquisto e le principali misure a tutela dei cittadini, dallo “scudo” tariffario sui costi dell’energia fino a specifici provvedimenti di sostegno alle fasce più deboli.
Né le vociferazioni e le turbolenze registratesi in Aula sono valse ad attenuarne un impatto sull’opinione di segno sostanzialmente positivo, certificato da un contenuto, ma significativo aumento dell’indice di popolarità e di fiducia nel Presidente e, soprattutto nella Prima Ministra.
Ciononostante, continua a prevalere un clima di scettica attesa e di rassegnata impazienza e frustrazione, quasi un ansiogeno e imperscrutabile “en attendant Godot” , frammisto ad un senso di stupita delusione dei francesi, adusi per effetto del semi-presidenzialismo consolidatosi oramai da decenni a venir presi per mano da un “capo” ed a “esigere” in qualche modo di essere sollecitamente diretti e governati, specie all’inizio di un nuovo mandato quinquennale: e ciò tanto più quando alla percezione di una “guida” meno decisa e convincente nell’additare la rotta comune alla Nazione, si aggiunge la considerevole pressione del sempre più volatile e minaccioso contesto internazionale.
In questo campo, pur nella pausa estiva, Macron non è stato davvero con le mani in mano: dal primo periplo africano alla recente visita in Algeria, dalla sotterranea tessitura di un superamento delle nuove frizioni franco-tedesche sino alla ripresa di iniziativa nel quadro del conflitto in Ucraina, ha agito con brinkmanship e con coraggio, non risparmiando critiche anche esplicite alle mire imperialistiche del Cremlino e non lesinando il tenace rilancio delle sue priorità europee, in particolare (ma non solo) nel dialogo UE-Africa. Ma, sia pure in modo velato, non gli sono state ancora una volta risparmiate frecciate dall’opposizione e dai commentatori che vi hanno letto prevalentemente l’intendimento di surrogare con l’attivismo nell’esclusivo ruolo “régalien” della diplomazia una fase di carente e lacunosa progettualità in politica interna.
Eppure, anche a riscontro delle tante polemiche sulla “verticalità” autoritaria del suo metodo di lavoro, il Presidente sembra volersi valere sempre più concretamente del ruolo e della personalità della Prima Ministra rapidamente (ed efficacemente) liberatasi dell’appellativo di semplice collaboratore dell’Eliseo, per prendere in mano con determinazione la conduzione del suo Governo e, soprattutto, il complesso terreno di un costruttivo rapporto con le opposizioni dell’arco costituzionale. La posta in gioco è rilevante e non pare probabile che, nel breve e medio periodo (vale a dire per la prossima sessione parlamentare dell’autunno) la sua paziente tessitura potrà dare i suoi frutti: la mano tesa dal Ministro del Bilancio Attal, nel tentativo di raggiungere qualche compromesso in vista di una approvazione almeno parzialmente consensuale della legge di bilancio, è stata per ora respinta unanimemente dalle opposizioni e si apre già la prospettiva di uno scontro aperto ed aspro in Aula: il Governo non avrà probabilmente altra scelta che forzare la mano all’Assemblea e promulgare il Bilancio per ordinanza, come prevede l’articolo 49, comma tre della Costituzione, quell’ormai iconico “49.3” sbandierato anticipatamente su tutti i media alla stregua di uno stigma disonorevole di intollerabile autoritarismo persino dalla destra estrema.
Se allo stallo in Parlamento si accompagnerà il parallelo sollevamento delle piazze, minacciato da Mélenchon con neppur troppo velati ammiccamenti ai sindacati più radicali, sarà difficile escludere che l’Eliseo non valuti fra l’altro il ricorso a ipotesi per ora ventilate solo fra gli estremi rimedi dei “piani B” di riserva; ed in particolare al potere di dissoluzione della Camera bassa, prerogativa esclusiva del Presidente. Un’opzione per ora sconsigliata appunto dalla fase di malmostosa incertezza della ripresa autunnale, acuita dalla crisi sistemica dell’Educazione Nazionale e della rete della Sanità pubblica, oltre che dall’onnipresente emergenza della sicurezza e dell’emigrazione, cui il Governo fra mille polemiche cerca di porre rimedio.
Non stupisce, quindi, che con non poca tenacia e pazienza tanto il Presidente che Elisabeth Borne perseverino malgrado tutto nelle proposte concilianti di dialogo e compromesso, consapevoli che guadagnare tempo può forse rivelarsi utile anche per favorire un’ulteriore decantazione del quadro politico.
Infatti, dietro i granitici rifiuti di ogni cooperazione con la maggioranza relativa, le posizioni dei singoli schieramenti vanno muovendo, come altrettanti fiumi carsici, verso impercettibili mutamenti ancora poco visibili in superficie, di cui non sfuggono però agli osservatori più attenti alcune subliminali indicazioni. Ad apparire il più adamantino, rimane il Rassemblement National che, forte del suo insperato successo, fa quadrato attorno a Marine Le Pen e la asseconda nell’operazione, oramai avanzata, di preselezione del suo successore alla Presidenza del Partito, favoriti il giovanissimo “reggente” Bardella e il suo ex-consorte Aliot.
Sembrano accentuarsi invece i primi scricchiolii nella Nupes, a seguito dell’accentuazione delle intemperanze di Mélenchon che suscitano preliminari, ancora timidi contro-segnali tanto fra i comunisti che nella famiglia socialista, con il coraggioso rientro in scena di uno dei “vecchi elefanti” di maggior prestigio, l’ex Primo Ministro Cazeneuve, nella prospettiva di un congresso del Partito prima della fine dell’anno.
Quanto ai neo-gollisti, chiamati all’elezione, sempre in autunno, del nuovo leader in sostituzione di Jacob, brilla ancora una volta per inconsistenza qualsiasi proposta programmatica sganciata dai vecchi giochi “politiciens” fra correnti contrapposte e dal nodo gordiano ancora irrisolto del rapporto con l’estrema destra ; ma più ancora pesa sulla scelta dei conservatori la condizione sospensiva – che rimarrà tale ancora a lungo – della madre di tutte le selezioni, quella dell’esponente che correrà, nel 2027, alla successione di Macron per i colori del neo-gollismo, per cui sono già considerati in lizza l’ex Segretario Wauquiez ed i transfughi Edouard Philippe, Bruno Le Maire e Gerald Darmani, secondo l’assioma dettato dalla tradizione gollista della coincidenza fra il leader del partito e l’aspirante alla suprema magistratura.
In un contesto così complesso ed a fronte delle incognite del futuro più ravvicinato, è quindi naturale che, ancora una volta, Emmanuel Macron privilegi i panni del cunctator, ricorrendo al temporeggiamento nel nome stavolta del dibattito allargato sulle questioni della democrazia, sulla lamentata crisi della rappresentanza politica e parlamentare, sul superamento dei meccanismi palesemente inceppati della Quinta Repubblica. O almeno è in questa chiave che le innumerevoli critiche rivolte all’insediamento lo scorso giovedì del Consiglio Nazionale di Rifondazione leggono (e per lo più stroncano) l’iniziativa di Macron di avviare una riflessione preliminare su potenziali progetti di riforma costituzionale, allargata ai corpi intermedi e alla società civile ed aperta a consultazioni in linea e a future ipotesi referendarie.
A partire dall’ambizioso (ed un po’ fuorviante) acronimo, riecheggiante il glorioso unanimismo post-bellico della ricostruzione, le stroncature sono state stavolta brucianti e le defezioni altrettanto mortificanti: da quelle dei partiti di opposizione ai vertici istituzionali (come il Presidente del Senato), sino ad alcuni fra i sindacati e allo stesso alleato Edouard Philippe.
Ma Macron non si dà per vinto e confida nel prossimo appuntamento del Consiglio ad una data già stabilita dal Segretario Generale che egli stesso ha preposto nella persona di Bayrou, che tesse la sua tela con coloro che hanno manifestato sin d’ora la propria adesione ed in particolare i sindacati di tendenza moderata, la Confindustria e la Corte dei Conti, oltre naturalmente alla Prima Ministra e alla Presidente dell’Assemblea Nazionale; probabilmente confidando nell’intuizione che i primi fremiti di evoluzione e di movimento del quadro politico possano maturare e favorire l’allargamento del dibattito d’insieme sulla questione istituzionale: un tema che, malgrado tutto, va annoverato fra le priorità non più rinviabili.
l’Abate Galiani
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