Lettera da Parigi
Il fasto solenne e composto della tradizionale parata militare sui Champs Elysées ed il fantasmagorico spettacolo dei fuochi d’artificio che concludono, in tutta la Francia, le celebrazioni della festa nazionale sembrano aver messo temporaneamente la sordina sul fragore dei roghi che devastano migliaia di ettari di territorio e sui clamori e le invettive provenienti dall’Assemblea Nazionale, incalzati dalla recrudescenza di scandali, veri o presunti, e dalla loro enfatizzata eco mediatica.
L’emiciclo della Camera bassa si è trasformato, nelle ultime settimane, nel vero palcoscenico della vita politica: sugli scontri in atto fra la maggioranza (relativa) e le opposizioni si concentra l’attenzione di analisti e commentatori, pervasa di incredulità sulle possibilità che si possa innescare una dinamica di concrete intese attorno a specifici provvedimenti di cui pure è evidente la rilevanza e l’urgenza.
L’insediamento del Borne II (più che la formazione di un gabinetto nuovo, un rimpasto limitato ad estendere a tutte le componenti della maggioranza una equa distribuzione di responsabilità) è passato in fondo in secondo piano: i riflettori si sono ancora una volta concentrati sulle sue prime prove del fuoco in Parlamento, dove la Prima Ministra si è presentata a più riprese: dapprima per la presentazione del programma del suo Governo, poi per la seduta solenne di risposte alle interpellanze dell’Assemblea e del Senato (qui considerata un appuntamento-chiave) ed infine per sottoporre al voto dell’Aula il primo disegno di legge in materia di proroga delle misure d’urgenza per la pandemia che scadevano alla fine del mese di luglio.
Sotto la lente di ingrandimento degli osservatori – quasi tutti pregiudizialmente ispirati al più grande scetticismo sulla sopravvivenza della legislatura – sono state via via passate al vaglio le prime prove di autorevolezza della nuova Presidente della Camera Yaёl Braun-Pivet, che ha dovuto tenere a bada le vociferazioni dei sans-culottes mélanchonisti e le invettive di una destra estrema in giacca e cravatta, e quelle di sostanza e di forma della Prima Ministra: entrambe le esponenti della "macronia" hanno saputo destreggiarsi con abilità e con garbata fermezza nei meandri di una inedita situazione parlamentare, senza tuttavia che si sia fin d’ora delineata una possibile road map che conduca ad un più ordinato e costruttivo calendario di confronto, tale da poter fare avanzare almeno le misure più urgenti da adottare per legge.
Più concreti, secondo gli stessi ambienti parlamentari, i primi passi in avanti nelle Commissioni che esaminano, fuori dal clamore mediatico, i testi sottoposti dalla maggioranza relativa, ed in particolare quelli che riguardano l’inflazione, l’energia e i sostegni alle famiglie e alle imprese.
L’Aula rimane invece, sotto il fuoco incrociato delle riprese televisive autorizzate e quelle “pirata” a mezzo dei telefoni cellulari dei tanti scatenati “attivisti”, una sorta di “plaza de toros” incandescente e a tratti indecorosa, in cui prevale per lo più – almeno in questa fase ancora propedeutica – il comune verbo dell’antimacronismo ad oltranza, alimentato contro ogni logica dal dilagante populismo della eterogenea alleanza di sinistra, dal sovranismo vanaglorioso dell’estrema destra e dall’indispettito e rancoroso revanscismo di quel che rimane del Partito Repubblicano.
Il lungo discorso programmatico della Prima Ministra, oltre ad una minuziosa elencazione delle priorità e delle proposte avanzate dal Governo per farvi fronte, si è tradotto – come molti hanno riconosciuto – in uno spassionato “discours de la Méthode”: Elizabeth Borne ha reiterato l’intendimento di ricercare concretamente il dialogo, non in vista di meri compromessi al ribasso, né di impossibili compromissioni sul piano dei principi e dei valori, ma di efficaci intese sulla sostanza nell’interesse del Paese. Ed ha ricordato, uno ad uno, i colloqui avuti dal Presidente e da lei stessa in sede di consultazioni con tutti i gruppi parlamentari, sottolineando come spunti incoraggianti in questo senso fossero emersi a destra in campo neo-gollista e a sinistra fra i socialisti moderati ed alcuni verdi.
Il primo atto, dopo tale prologo, di cui è stata riconosciuta se non l’arte oratoria, quantomeno l’autorevolezza e la competenza di Borne, si è concluso con un sostanziale pareggio: schivata, grazie al dettato costituzionale, l’insidia del voto di fiducia che le era consentito di non brigare espressamente, la “rappresaglia” ideata da Mélenchon e cavalcata in aula (dalla quale come noto è assente) con minor furbizia e maggior sguaiatezza dai suoi seguaci, quella cioè di una mozione di sfiducia (o di censura) è – come previsto – naufragata, a fronte della mancata adesione delle altre due componenti dell’opposizione, la destra estrema e quella repubblicana. E persino il fine recondito della mossa della Nupes, quello di ostentare la propria adamantina compattezza, non è stato compiutamente raggiunto, essendosi alcuni autorevoli esponenti socialisti dissociati dal voto.
Nello spazio di un mattino, tuttavia, si è voluto infliggere un nuovo monito al Governo, bocciando uno dei quattro articoli della legge di proroga delle misure sanitarie anti-pandemia, quello che, in armonia con le intese europee, prevedeva la reintroduzione possibile del pass sanitario ai confini, in caso di apparizione di nuove varianti o di una ulteriore recrudescenza dei contagi. E stavolta, contro ogni logica e senso comune, le tesi più dissennate degli anti-vax ad oltranza sono andate a braccetto con quelle dei profeti dell’ordine costituito e della sacralità delle frontiere nazionali, pur di assestare un colpo purchessia all’Esecutivo, fin dai suoi primi passi. Un segnale episodico, è vero, che in altri sistemi parlamentari sarebbe stato letto come un momentaneo scivolone della maggioranza (che il Senato potrebbe ancora correggere), ma che ha subito alimentato negli irriducibili fedelissimi della Quinta Repubblica nefasti presagi della inevitabilità di una dissoluzione dell’Assemblea nei mesi a venire.
La logica oltranzista delle opposizioni estreme è evidente: il social-populismo di Mélenchon mira in effetti e neppur troppo velatamente, al caos (dopo l’aula, le piazze e le città di tutta la Francia, con l’annuncio di oceaniche manifestazioni popolari di protesta a settembre); il sovranismo in doppio petto della Le Pen si propone fin d’ora come la sponda salvifica per emergere a posteriori dal caos: “ci siamo noi… après le déluge”.
E tanto per mantenere viva e costante la pressione sull’opinione ed ostacolare ogni avanzamento concreto di iniziativa del Governo, non si esita – con la incomprensibile acquiescenza e remissività dei media – a rimestare su una serie crescente di scandali, veri o presunti, che investirebbero direttamente l’irreprensibilità del Presidente in persona (il vespaio dei cosiddetti “Uber Files” innescato dalla denuncia di un’inchiesta giornalistica, capitanata stavolta da Le Monde, su presunti favori concessi dall’allora Ministro dell’Economia Macron al gruppo americano per propiziarne gli investimenti in Francia) o la credibilità del suo Ministro dell’Interno, sconfessato dall’inchiesta del Senato sugli incidenti allo Stade de France (che in effetti sarebbero costati caro alla coalizione in termini di voti alle legislative). Ma… chi di spada ferisce… lo stesso Mélenchon, impegnato in un improbabile giro di visite in America Latina, si trova impelagato nell’apertura di una inchiesta giudiziaria per violenza sessuale, a carico del suo principale luogotenente (e neo eletto Presidente della Commissione Finanze) Eric Cocquerel. Per ora non ha trovato di meglio che esprimergli la sua incondizionata fiducia e solidarietà, suscitando in seno alle fedelissime militanti femministe del suo movimento un’ondata di attonita incredulità e di palpabile imbarazzo, ed al tempo stesso la misurata ma unanime indignazione della restante rappresentanza politica e parlamentare, che lamenta il costante ricorso da parte sua ad un ipocrita automatismo del “due pesi e due misure”.
Spronato da più parti, anche in seno alla sua maggioranza, Macron ha deciso di rompere gli indugi e di rivolgersi direttamente ai francesi, riannodando con la vecchia tradizione di una lunga intervista televisiva dall’Eliseo, in chiusura dei festeggiamenti alla Concorde.
Chi si attendeva una presa d’atto della sostanziale sconfitta elettorale alle legislative o reclamava un “mea culpa” presidenziale è rimasto a bocca asciutta. In oltre un’ora di risposte agli incalzanti quesiti, il Presidente si è soprattutto mostrato intenzionato a mantenere dritta la barra del suo progetto di insieme che ha sintetizzato in tre priorità per il prossimo quinquennio: preservare l’indipendenza politica ed economica del Paese; accelerare la transizione ambientale cogliendo il destro della irrinviabile trasformazione energetica; continuare a preservare l’equità sociale e combattere le disuguaglianze. Macron ha ancora una volta fatto leva sul suo innato ed ottimistico volontarismo e, pur non lesinando sui toni gravi e a tratti apertamente allarmati a fronte della instabilità crescente in Europa (con i sinistri venti di crisi transalpini) e nel mondo, ha volutamente rappresentato il futuro prossimo che attende i francesi senza promettere churchillianamente “lacrime e sangue”, ma cercando di sdrammatizzare, quanto meno sul piano metodologico, le difficoltà e gli ostacoli che li attendono al varco e confermando che intende continuare a guidare la barca confidando sulla responsabilità di tutti, forze politiche, corpi intermedi, autorità territoriali e semplici cittadini: una versione edulcorata dell’invito al risparmio energetico e alla sfida di un primo inverno di sobrietà e di sacrifici, rispetto alle misure di austerità già annunciate in Germania. Anche in tema di dialettica parlamentare e di metodo nuovo del dialogo e del compromesso, il Presidente ha inteso ridimensionare il pericolo di una frammentazione dell’Assemblea, minimizzando la bocciatura inflitta l’altro ieri dall’Aula all’articolo 2 del progetto di legge in materia sanitaria alla stregua di un “colpo di sole estivo ad opera di una improbabile e transeunte costruzione barocca di forze tra loro altrimenti incompatibili”.
Sotto l’apparente guanto di velluto e la bonomia della parola presidenziale, non pochi hanno letto la determinazione a perseguire l’attuazione di alcune riforme chiave: fin da settembre una nuova legge sul lavoro che affronti lo spinoso tema del reddito di sostegno, appaiandolo a più cogenti impegni nella ricerca del lavoro e nella formazione e l’avvio della concertazione attorno ad una indispensabile revisione del sistema previdenziale, ancor più indigeribile per la sinistra. In proposito, è stato, con garbo ma non senza esplicita fermezza, evocato l’armamentario costituzionale – da alcune approvazioni per decreto sino alla sfida del referendum – che la carta fondamentale voluta da de Gaulle concede alla discrezione del Presidente della Repubblica. Ancora una volta, nessuna concessione all’empatia né al tentativo di recuperare i tanti punti di popolarità persi nelle ultime settimane, ma l’appello alla responsabilità di tutti (verso compromessi possibili e appunto “responsabili” per il bene del Paese) in cui molti hanno ravvisato anche stavolta una sorta di chiamata “in correità” delle opposizioni autenticamente democratiche. La sola nota personale introdotta in chiusura da Macron è stata l’abiura al ruolo di Zeus dell’Olimpo, attribuitogli in tutto il quinquennio trascorso e l’invito ai francesi a considerarlo piuttosto al loro esclusivo servizio, identificandolo piuttosto, fra le figure mitologiche dell’antichità, come un Efesto sempre intento a far operare incessantemente la sua fucina.
l'Abate Galiani
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