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Kiev e Praga, un lontano ricordo

Lettera da Washington


Due giorni fa il Presidente ucraino Zelensky ha parlato al Congresso americano, a camere riunite, s'intende virtualmente, un paio di settimane dopo lo stesso evento condotto da Biden, impegnato nel consueto "State of the Union". Qui comincia e qui finisce l'analogia. L'intervento di Zelensky ci fa chiedere se nelle nostre democrazie del XXI secolo il Capo dello Stato non debba fatalmente cercarsi tra i "performers", figure capaci di catturare l'attenzione, volgerla all'uso previsto, compattare l'opinione dei molti fino a renderla l'opinione di tutti. Zelensky, che fino a pochi anni fa era noto come una popolare figura mediatica, è balzato sullo stesso palcoscenico di Churchill, Kennedy, e altri che hanno dedicato la loro vita all'arte della leadership politica dei popoli. Chi leggesse oggi la trascrizione del discorso probabilmente concluderebbe che si è trattato di un buon discorso ben preparato, da qualcuno che conosce i punti sensibili dell'anima degli americani, e li sfrutta a dovere; assomiglia ai discorsi simili fatti da Zelensky ad altri leader, con opportuni riferimenti alla storia di ciascuno, nondimeno efficaci.

Il confronto con il discorso di Biden è impietoso, anzitutto per il pathos del momento, abbastanza potente da far applaudire l’intero legislativo americano - per una volta senza distinzione di parte - salvo al punto in cui Zelensky ringrazia il collega americano per l’aiuto finora prestato. Sarebbe sbagliato quindi concludere che Zelensky abbia riportato l’unità al mondo politico americano; ha solo riportato una occasionale simultaneità, e ciò fa riflettere fin dove si spinga il patriottismo dei rappresentanti del popolo in questo paese. Se Zelensky ha espresso l’unità dell’Ucraina nell’ora del pericolo, il suo pubblico ha espresso ammirazione, ma non ha potuto nascondere lo spettacolo di una nazione divisa, che sembra voler restare tale anche quando converge su temi profondi come la democrazia (purché sia quella altrui) oppure la legge delle nazioni. È un peccato, ed una occasione mancata per riaffermare uno dei punti di reale fierezza di questo paese: la capacità di esprimere unità di pensiero dinanzi a una sfida ai principi intorno ai quali si è formato.


Prescindendo da come il Congresso l’abbia accolta, che forse non è lo stesso modo in cui il paese l’ha ascoltata, Zelensky ci ha comunque confermato con la sua orazione la risposta a una domanda, che ci si è posti spesso negli anni della dissoluzione dell’URSS, quando tutto era ancora in movimento in Europa.


Nel 1992, l’ambasciatore italiano a Praga non conosceva Zbignew Brzezinski, ma aveva amici in comune. Così non cadde dalle nuvole quando Zbig gli telefonò un giorno per annunciare che sarebbe passato volentieri a prendere un caffè dopo l’incontro con Vaclav Havel, che lo aspettava al Castello a cinque minuti a piedi dalla sede diplomatica italiana sulla Nerudova Ulica. Erano i primi tempi della Presidenza di Havel e Zbig non era un visitatore qualsiasi; a suo tempo consigliere del Presidente Carter, le imminenti elezioni americane avrebbero infatti di lì a poco consacrato la vittoria di un altro Democratico come lui. Zbig riferì che Havel non aveva tardato a chiedergli: “Cosa farà l’America se i Russi tornassero ad essere pericolosi e ci invadessero ancora una volta?” L’immensa base aerea sovietica di Milovice giaceva abbandonata a pochi chilometri dalla capitale, un facile colpo di mano avrebbe potuto ripetere le tragiche giornate del ’68.

Brzezinski, senza pensarci troppo, rispose che prima di tutto occorreva domandarsi non come avrebbe reagito l’occidente, ma come avrebbero reagito i Cecoslovacchi. Non si sa come rispose Havel quel giorno. Ma oggi sappiamo come ha risposto Zelensky, a nome del suo popolo.

Curioso che nel 1992 il quesito fosse posto a un drammaturgo, e abbia trovato risposta trent’anni dopo per bocca di un attore.

Questo rilancia la palla nel nostro campo. Fuori della NATO non ci sarà un automatismo paragonabile all’art.5, ma è ormai chiaro che non ci sarà parimenti neanche passività. Gli Ucraini hanno dimostrato che è possibile esigere un costo elevato ad un potenziale invasore; l’occidente ha dimostrato di poter evitare il ricatto nucleare, quando un paese aggredito dimostra di voler far fronte all’aggressore.


Resta da augurarsi che la resistenza degli Ucraini conduca anche la Russia su un cammino diverso, sul quale ha tutti i numeri per avere il successo che compete a una grande nazione, senza lasciarsi sviare da presunte passeggiate militari, che - come sappiamo bene anche noi - tendono a finire male.


Franklin

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