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Un “Watergate Redux” per Donald Trump?

Lettera da Washington


Cinquanta anni fa, il 17 giugno 1972, la radio diffonde la notizia dell’arresto di un gruppo di maldestri figuri negli uffici del partito Democratico nel centro della città. Sono in vista le elezioni e si trova presto un legame con la Casa Bianca di Nixon. Nessuno fuori di Washington ha ancora mai sentito parlare del Watergate (eccetto la Società Generale Immobiliare di Roma, che ha costruito il complesso edilizio). La notizia che l'uomo più potente del mondo possa aver mandato una squadra a spiare nel quartier generale dei suoi avversari politici è incredibile e infatti lascia molti ascoltatori scettici. La radio passa subito dopo a programmi sul prezzo dei cereali e del granturco, questioni che toccano da vicino i milioni di farmers dell'entroterra americano. Presto a Washington divamperà il processo politico del secolo. Si concluderà con l'esilio del Presidente Nixon, potente artefice della vicenda - ma dopo la sua rielezione, ottenuta con uno tsunami di voti. Solo uno dei cinquanta Stati vota contro di lui, più la capitale, roccaforte democratica.


È una lezione di democrazia; il voto dei cittadini è quasi unanime, ma non basta a lavare dalle sue colpe un titano politico come Nixon, che - sotto i colpi di una magistratura inclemente nutrita da una stampa indomabile - parte in esilio per non essere umiliato in un processo che lo avrebbe certamente deposto, primo Presidente della storia, con il voto dei suoi stessi compagni di partito. Quell'America, di destra o sinistra che fosse, non era disposta a perdonargli l'abuso dei poteri attribuitigli, nemmeno dopo avergli tributato uno dei più schiaccianti successi elettorali nella storia della nazione, premio per aver liberato il paese dal pantano del Vietnam.

Mezzo secolo dopo, un popolare ma censurabile ex-Presidente, Donald Trump, è nuovamente sotto lo scrutinio degli organi della Repubblica. Una commissione speciale della Camera dei Rappresentanti è in sessione e fa scintille. Il presidente della commissione è un Democratico a nome della maggioranza; la vicepresidente è la deputata Elizabeth Cheney, Repubblicana, a nome del partito di minoranza. I Repubblicani abbandoneranno al suo destino il loro campione, che ha gettato discredito sulla lunga tradizione politica del Grand Old Party (GOP), ma è ancora una macchina acchiappa-voti?


Il primo atto di una tragedia shakespeariana è in corso in questi giorni. La regia di Liz Cheney, figlia dell'ex-vicepresidente di George Bush ed esponente dell'aristocrazia politica Repubblicana, appare impeccabile e non perdona. La sua credibilità non deriva solo dalla discendenza da un esponente della destra dura, come era il padre, bensì dall'essersi costruita una carriera politica fatta di opinioni nette senza sfumature e scorciatoie, difese con vigore contro la critica proveniente da destra come da sinistra. L'inchiesta parlamentare sulle responsabilità della Casa Bianca e di Trump non poteva aver luogo senza una figura autorevole e credibile della parte Repubblicana.


L'accusa ha lavorato a lungo e meticolosamente per assemblare il "corpus" da contestare a Trump: l'imputazione di "sovversione" rivoltagli è, per gravità, seconda solo a quella di tradimento. Sono stati riuniti centinaia di documenti, minute di conversazioni, registrazioni, messaggi informatici e i testimoni stanno sfilando davanti alla commissione d’inchiesta come accadeva ai tempi di Nixon. Ovunque si sente parlare di Watergate Redux. Così come cinquant'anni fa, è cruciale anche oggi stabilire cosa sapeva il Presidente, quando lo aveva saputo, come aveva reagito, quali istruzioni aveva dato. L'indagine deve accertare se da parte del Presidente e dei suoi diretti collaboratori sia stato perseguito un segreto disegno organico, di cui facevano parte da un lato i manifestanti organizzati forniti dalle "milizie" ("Proud Boys", "Oath Keepers" e simili), impegnate a creare pressione sui parlamentari mentre questi deliberavano sulla proclamazione dell'esito delle elezioni, e dall'altro i legali e i politici di partito che avevano elaborato lo scenario. Il piano che si delinea prevedeva che, una volta gettato dubbio sull'esito elettorale in qualche Stato, il Vicepresidente Pence avrebbe avuto un appiglio per rifiutare la certificazione del voto, sollecitando poi alcuni Stati tradizionalmente Repubblicani, ma che avevano votato per Biden, a presentare una diversa delegazione (e così un diverso voto) al computo finale. Questo rovesciamento di alcuni Stati sarebbe bastato per offrire a Trump una vittoria, all'apparenza senza brogli, utilizzando regole già codificate. La pecca sta nel fatto che i poteri del Vicepresidente escludono queste azioni, come i legali della Casa Bianca avevano subito fatto presente a Trump: comandare al Vicepresidente di compiere un atto che non era nei suoi poteri, sulla scorta del parere di un unico consigliere giuridico contro tutti gli altri, è indubbiamente contrario alla Costituzione; giungere alla velata (ma non tanto) minaccia nei confronti del suo Vice è materiale per Cosa Nostra, non per il paese di Hamilton, Washington, Jefferson... Ora gli stessi consiglieri giuridici che avevano cercato di dissuadere Trump sono interrogati dalla commissione d’inchiesta, e naturalmente non hanno difficoltà a vuotare il sacco.


Emerge dalle indagini la callosa indifferenza con cui l’allora Presidente seguì l’operato dei suoi stessi sostenitori, pronto ad accettare con una scrollata di spalle l'idea che Pence fosse afferrato e massacrato da una masnada di fanatici per aver osato rispettare la legge fondamentale della nazione. Prezzo da pagare per restare sulla poltrona presidenziale.

Va oggi a credito di un pugno di individui di quel partito, che occupavano posti chiave, di essersi distanziati da questo piano anche a costo di concedere la vittoria elettorale ai Democratici, come è poi avvenuto, ed a costo di inimicarsi il Presidente, come si è verificato. A questi si aggiungono ora anche i più stretti famigliari di Trump, la figlia maggiore Ivanka e suo marito, che hanno accettato ormai la sconfitta del 2020, consapevoli che qualsiasi futuro politico vorranno cercare in avvenire non potrà essere fondato sull’infantile egocentrismo del capofamiglia.


Che l'era di Trump non sia bastata a sovvertire le basi della democrazia americana è la migliore notizia in cui si potesse sperare; non era scontata, e si è andati vicino a perdere quella battaglia. Quanto vicino, emerge dal lavoro senza precedenti della commissione parlamentare. A questo potrà far seguito una formale indagine penale che dovrebbe essere lanciata dal Ministero della Giustizia, da cui potrebbe conseguire una formale condanna di Trump e dei suoi principali collaboratori. C’è ancora strada da fare.


Uno dei piloni portanti di una democrazia è il valore della maggioranza, ma in seno al circolo di Trump pochi erano disposti ad accettare la sconfitta del 2020. Ancor oggi un gran numero dei sostenitori dell’ex-Presidente è convinto che l'esito sia stato compromesso da oscuri complotti, la cui varietà è così piena di immaginazione che se ne potrebbe trarre un genere fantapolitico a sé. Basti dire che tra i "trucchi" denunciati figurano anche misteriosi satelliti italiani che avrebbero dalla loro orbita manomesso i conteggi, a favore di Biden. Chi mai potrebbe più dire che siamo una insignificante potenza di terzo rango…

In questi giorni, la presenza in sala con un ruolo assertivo e per nulla sottomesso di parlamentari e testimoni politicamente legati al GOP, a cominciare dalla Cheney e dall'ex Ministro della Giustizia Barr, più i già citati famigliari stessi di Trump, apre uno spiraglio di speranza che sia fatta chiarezza e giustizia sull’accaduto.


Il procedimento in corso ha un valore declaratorio e non può condurre ad una condanna penale: perché condanna vi sia, dovrà muoversi l'apparato giudiziario vero e proprio, e questa sarà la difficile scelta che incombe al capo di quel dicastero, un giurista rispettabile, competente ma prudente. Si vedrà.


Qualunque sia l'esito processuale in senso stretto, nulla sembra poter turbare il rapporto mistico che lega il popolo di Trump all'oggetto della loro devozione. La fede nel leader non verrà meno, sostenuta peraltro dalla Fox News che lo appoggia e ha deciso di non coprire affatto la vicenda processuale. Milioni di americani che seguono questa rete possono continuare a non sapere quanto sta accadendo a Washington in questi giorni. Washington non è Parigi, ma è come ignorare la presa della Bastiglia.


La divisione in seno alla nazione americana è profonda e il cammino per ricucirla è lungo e incerto. Questa è la condizione che corrode oggi quella stessa “democrazia in America” di cui parlava con ammirazione Tocqueville un paio di secoli fa.


Se nelle prossime elezioni prevalesse il GOP, un governo Repubblicano sarebbe inevitabilmente influenzato dall’ombra di Trump e ciò non incoraggerebbe alcun avvicinamento tra le parti. Se nel popolo Repubblicano riprendesse, invece, fiato la componente conservatrice tradizionale, oggi minoritaria, questa potrebbe forse lavorare con la sinistra moderata Democratica, dando al paese un’altra chance di riforma del sistema politico: in qualche modo, un nuovo patto fondatore. Ma non illudiamoci.

Oggi l'America naviga un mare procelloso, in cui un vincitore (Biden) non riesce a svolgere quanto ha promesso. Qualunque siano i suoi limiti personali, ciò avviene sostanzialmente perché la maggioranza che sceglie il Presidente non è la stessa che si esprime in Parlamento. Non c’è nessun “premio di maggioranza” e la polarizzazione politica segna la scomparsa di una forza politica “centrista” che faccia da ponte tra i due partiti, e che poteva una volta offrire un terreno di collaborazione e una meno contrastata governabilità.


Tuttavia, se anche questa analisi fosse condivisa dalle forze politiche americane, una riforma costituzionale sarebbe fuori discussione. Resta solo la via del dialogo politico e la tenue speranza che gli eccessi e le paure dell’era di Trump creino anticorpi sufficienti a determinare una reazione, un impulso verso una forma di democrazia collaborativa, come è stato, talvolta, dinanzi ad altre grandi crisi nazionali.

Franklin

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