Lettera da Washington
Gli americani festeggiano il loro Primo Maggio ai primi di settembre: il “Labor Day”, il 5 del mese, è il giorno in cui le ferie si considerano terminate e si ritorna alla routine.
Ci stiamo avvicinando ad una data che sarà cruciale per la storia americana, il prossimo 8 novembre: l’appuntamento elettorale di “metà percorso” dista poche settimane e non sarà una giornata ordinaria. Gli scorsi sei anni hanno visto l’irruzione di Trump sulla scena politica, la sua ascesa alla presidenza, la meticolosa distruzione del mondo creato dai suoi predecessori di entrambi i partiti, poi la sua sconfitta e la disperata commedia inscenata per negarla, infine il suo ritiro in luogo sicuro - ma solo per tramare il secondo atto.
Intanto nella capitale si svolgeva lo stesso scenario che avevamo visto con la presidenza Obama: la minoranza Repubblicana faceva terra bruciata, boicottando ogni iniziativa dell’amministrazione senza riguardo per gli interessi dell’America e degli americani. Da una dozzina di anni a questa parte si deve ormai considerare estinta quell’intesa che dopo ogni elezione permetteva agli attori della politica di tornare a competere, senza abiurare i propri principi, ma anche senza perdere di vista la missione del Congresso nel governare la nazione. Strumentale in questa felice tradizione era l’esistenza di Repubblicani progressisti e di Democratici conservatori, due specie oramai estinte, che fornivano le necessarie maggioranze ad hoc.
La svolta è accaduta durante la presidenza Obama: questo Presidente di colore, formato nelle migliori università del paese, oratore eccellente, moderato per sua natura, dopo la sua epocale elezione è stato boicottato come mai prima nella storia della democrazia americana. Vedendo la premonizione di un assestamento demografico favorevole ai Democratici tra gli americani, la dirigenza Repubblicana si persuase che la via di uscita consistesse nell’impedire che l’amministrazione Obama portasse a termine alcunché, e passasse dunque alla storia come un governo incapace ed inefficiente: non solo le riforme del suo programma, ma anche gli atti di governo necessari a gestire il quotidiano. A causa di questo esplicito ordine di scuderia, per Obama non è bastato più il voto dei cittadini, che lo hanno eletto e rieletto; occorreva anche il voto quotidiano dei politici, che gli fu negato, e poté solo approvare una modesta riforma della sanità. Così rimase stabilita la formula del partito Repubblicano per arrivare al governo: assicurarsi che il suo avversario, una volta al potere, fosse impotente.
Il GOP fu in grado nel 2016 di raccogliere masse di voti di elettori delusi dal governo, di cui i Repubblicani erano in parte la causa, grazie a un candidato iconoclasta che pur ricoprendo di obbrobrio il partito, ha poi mantenuto la sua presa sul pubblico. Il partito, che ormai non può ignorare le gravi mancanze di Trump, dovrà affrontare il dilemma se riabbracciarlo, come l’ultimo salvagente disponibile per restare a galla, oppure trovare un nuovo leader carismatico e al tempo stesso rispettabile, come ce ne devono certamente essere tra i milioni di aderenti al GOP. Più facile sembra riproporre il Donald, e lanciarlo a briglia sciolta nella campagna elettorale. Ma se il partito lo proponesse, potrebbe Trump essere candidato, visti i procedimenti giudiziari che lo riguardano?
La macchina giudiziaria americana si è infatti messa in movimento. Il Ministro della Giustizia, Merrick Garland, un giurista serio e stimato, sarebbe stato un eccellente giudice della Corte Suprema se non fosse stato ostracizzato dai Repubblicani, che si rifiutarono di iscrivere la sua nomina per la conferma del Senato. Fu una mossa di parte, essenziale per la scalata alla Corte Suprema, effettuata con successo durante la successiva presidenza di Trump.
Ma Garland non è un cow-boy in cerca di vendetta: oggi lo vediamo impegnato con meticolosa serietà nell’inchiesta sulle violazioni di Trump delle norme sul Segreto di Stato, specialmente in vista delle gravi trasgressioni riguardanti segreti militari e la sicurezza dell’intelligence. I fascicoli sequestrati nella residenza di Trump comprendono dozzine di documenti classificati da segreto in su, e ci si chiede perché se li sia portati a casa.
Forse li considerava come assicurazione contro futuri attacchi politici, o mezzo di pressione nei riguardi di un governo a lui ostile, o perfino una moneta di scambio. In Italia la Costituzione sancisce l’obbligo del Pubblico Ministero di esercitare l’azione penale. Non esiste una norma simile nella legge americana, dove il Pubblico Ministero ha facoltà di procedere, ma può anche non farlo. Esiste perciò l’istituto del “plea bargaining”, cioè accordarsi su una accusa minore di cui il soggetto incolpato si dichiarerà colpevole mentre il PM rinuncia a procedere per l’accusa più grave. Questo avviene quando nessuno dei due è sicuro di vincere in tribunale; si risparmia tempo e denaro, ma resta l’incertezza: davvero sarà stata fatta giustizia?
A due mesi dal voto, l’America di Biden e quella di Trump si guardano in cagnesco. Le elezioni di medio termine che di solito non sono il massimo della frequentazione danno segni di una possibile impennata: però non sarebbe un segno di buona salute della democrazia, ma la conferma di una inquietudine nel paese, la cui causa sono le aspre divisioni del nostro tempo. Ne segnalo due, le più inquietanti.
La prima, riflessa nei partiti, deriva dal fossato tra due contrapposte idee di Stato, che guidano due divergenti anime del paese: una – individualistica - che persegue l’assoluta libertà per ogni individuo, senza altra restrizione di quanto sia specificamente proibito dalla comunità, e l’altra - più solidarista - che vede la grandezza del paese nella condivisione non solo degli obiettivi, ma anche dei mezzi per raggiungerli.
La seconda divisione non è partitica, e riguarda la dissonanza tra la tendenza della maggioranza dei cittadini e la legislazione prodotta dai loro rappresentanti. È difficile capire come una democrazia sistematicamente legiferi in senso diverso dalle indicazioni che provengono dalla cittadinanza. Due grandi questioni lo testimoniano.
Per cominciare, una chiara maggioranza di americani, al contrario della Corte Suprema, non è contraria all’aborto, almeno in circostanze specifiche. Il Congresso avrebbe l’autorità per tradurre questo in legge.
Inoltre, la stessa percentuale di cittadini pensa che sia sbagliato lasciare completa libertà a chi - afferrandosi ad un emendamento Costituzionale - vuole dotarsi di armi da fuoco affinché “il paese possa disporre di una milizia ben addestrata”. Oggi la “Guardia Nazionale” degli Stati Uniti, che è appunto una tale milizia, conta 337.000 militari; ma 332 milioni di americani detengono 393 milioni di armi, cioè 1200 armi da fuoco per ogni “guardsman”, 12 armi ogni dieci cittadini, compresi bambini, anziani e menomati. È un business di 80 miliardi annuali. Ogni volta che la contesa politica finisce in piazza, i cittadini corrono dall’armiere e tornano a casa con una nuova pistola o un ulteriore fucile automatico AR15 - non lo schioppo del nonno - e pacchi di cartucce. Queste sono strettamente armi anti-uomo. Che i cittadini ne sentano il bisogno sorprende e preoccupa; chi compra un’arma e la chiude in cassetto non sa se la userà mai; ma chi ne compra una dozzina coltiva un rapporto diverso con l’arma, suggerendo che non sarebbe restio ad adoperarla.
Molti andranno a votare l’8 novembre proprio mossi da questi quesiti-campione: a differenza dalle elezioni presidenziali, le elezioni congressuali rappresentano più direttamente la mappa politica del paese, e il loro esito dipende dal grado di motivazione dei votanti. Per i Democratici, questioni come quella dell’aborto stanno avendo un effetto moltiplicatore; per i Repubblicani, il fattore potenziale è ancora una volta Trump.
Non è chiaro quanto a lungo il GOP vorrà legarsi a Trump: l’ex Presidente è una droga che può fornire uno spunto agonistico il giorno delle elezioni, ma non è la medicina che serve al partito. Trump non è la guida morale del popolo americano, ma occupa ancora la posizione di maggior visibilità nel suo campo politico; oggi si trova al bivio tra una possibile grave vicenda penale e la Casa Bianca dove potrebbe candidarsi (non foss’altro per allontanare lo spettro di Sing Sing).
Anche se gli americani sembrano cominciare a superare l’ebbrezza della sua irresponsabilità, come alcune votazioni recenti indicherebbero, il partito Repubblicano potrebbe averne ancora la necessità. Ma Trump non ne rappresenta affatto la tradizione: se l’establishment Repubblicano sarà costretto a ricorrere stabilmente a lui, starà facendo un patto col diavolo. Nell’interesse dell’America, la cui democrazia è sorretta dalla confluenza di due partiti con priorità alternative, la saga autocratica di Trump dovrebbe essere definita ben prima delle prossime elezioni presidenziali. Nel clima torrido di un’elezione condotta in condizioni di tensione sono facili locali episodi di violenza. Oggi, potrebbero segnare il momento in cui il fuoco si avvicina al magazzino delle polveri.
Due anni sono pochi; ma la vicenda dei segreti di Stato può dare ai Repubblicani l’occasione per rilanciarsi nel 2024 con un candidato più degno della storia del loro partito.
Franklin
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