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L'interesse nazionale e i ritardi della politica

L’uragano Covid, in tutto il mondo, ha fatto passare in secondo piano alcune idee che negli ultimi decenni sono andate per la maggiore. Per citarne solo alcune: che la solidarietà europea fosse un dossier da mettere in archivio; o che da sola la forza del mercato avrebbe garantito uno stabile e duraturo sviluppo; o che i meritori sforzi del cosiddetto terzo settore avrebbero potuto supplire alle carenze delle strutture pubbliche tradizionali cui è affidato il compito di far funzionare lo stato sociale e cioè sanità, scuola, previdenza e trasporti.

In altre parole si è tornati alla richiesta di politica. Molti osservatori attribuiscono l’alto consenso personale di cui gode il presidente del Consiglio proprio a questo mutamento intervenuto negli umori profondi dell’opinione pubblica.

Ciò detto, dove ricercare barlumi di politica nell’orizzonte italiano?

Non certo nel campo dell’opposizione, che appare priva di una proposta complessiva per il Paese, azzoppata in una leadership come quella rappresentata da Salvini, la cui stella è in lento ma inesorabile declino, divisa su temi spartiacque come il Mes, lacerata nella collocazione europea tra l’europeismo di Forza Italia, l’anti europeismo della Lega (che resta sorda alle sollecitazioni di Giorgetti per un approdo morbido tra i Popolari) e il neoconfederativismo della Meloni volto più che altro a rafforzare nel centrodestra lo standing di Fratelli d’Italia.

Guardiamo all’altro campo: le forze di maggioranza appaiono si è no in grado di gestire il day by day. I Cinquestelle, cioè il partito che detiene la metà delle forze parlamentari della coalizione, sono attraversati da divisioni che non cesseranno prima della fine dell’anno, quando si vedrà se la minoranza costituita da Di Battista e Casaleggio avrà o meno il seguito necessario per operare una scissione su una piattaforma di contrarietà all’alleanza organica col Pd.

Zingaretti, dal canto suo, sprona ogni giorno il governo e la maggioranza ad operare con maggiore concretezza: un invito, che pur assumendo talora toni di velata minaccia, pare più motivato dall’attribuire all’alleato la colpa dell’inattività (competition is competition) che non a trarne concrete conseguenze per ciò che attiene all’attività se non addirittura alla vita dell’esecutivo.

Leu e Italia Viva appaiono preoccupati solo dall’esito finale della trattativa sulla soglia di sbarramento da inserire nella prossima legge elettorale.

Tutto male quindi? Forse no, se si cambia prospettiva.

Gli interessi profondi del Paese sono legati al corretto utilizzo delle risorse europee. La maggior parte di esse non saranno disponibili prima della seconda metà del 2021. Fino ad allora possiamo fare ancora un po’ di debito endogeno grazie alla Bce, utilizzare il Sure per gli ammortizzatori sociali e aspettare che tutti si arrendano all’utilizzazione del Mes per migliorare il Servizio Sanitario, perché fiaccati ed esausti per la ripresa dei contagi in tutta Europa e da noi.

D’altro canto, il grosso dei fondi europei è legato ad una trattativa sul bilancio settennale dell’Unione che procede più a rilento del previsto. Ciò può – e vorremmo dire “deve” – consentire al governo di cambiare paradigma di azione. Dalla precedente impostazione per cui all’inizio dell’estate si disse a tutti soggetti interessati - ministeri, Regioni, Comuni, parti sociali – di presentare i più disparati progetti, è possibile passare ad una più ordinata procedura di formulazione e implementazione del piano italiano. Qualche primo segnale in questo senso lo abbiamo colto nelle parole del presidente del Consiglio all’Assemblea di Confindustria. Come scrivevamo nel nostro editoriale di ieri, occorre proseguire con maggior coraggio su questa nuova strada con una legge che istituisca un unico centromotore del piano, cui attribuire compiti di valutazione comparativa dei progetti, di direzione e controllo della loro esecuzione e di continua interlocuzione con la task force creata dalla Commissione europea per valutare la coerenza dei piani nazionali con i macrobiettivi di sviluppo che l’Unione si è data.

Non si possono fare errori in una fase così delicata.

C’è una questione, infine, che vogliamo segnalare con forza al presidente del Consiglio. È evidente che tra i soggetti con cui il governo dovrà interloquire ci sono le Regioni. Sia perché c’è una tradizione, invalsa anche per i progetti pre-era Covid,

di partecipazione delle Regioni all’utilizzazione dei fondi europei. Sia perché, come si è visto nelle recenti tornate elettorali, sta emergendo una generazione di governatori dotati di una propria forza politica: da Bonaccini a Zaia, da De Luca a Emiliano, a Toti. Si tratta di circostanze che chi ha la responsabilità della politica nazionale deve prendere in considerazione ma che, proprio per questo, devono essere inserite in una più ampia visione di sviluppo del Paese.

Ci auguriamo che la partecipazione proficua delle Regioni alla confezione del piano del governo, vada di pari passo con l’accantonamento di ogni velleità di introdurre Autonomie speciali e rafforzate, che inevitabilmente accrescerebbero il dualismo economico Italiano. A tutto svantaggio di territori, come le regioni del Mezzogiorno, che, viceversa, nelle prospettive che si aprono con l’arrivo delle risorse europee possono trovare l’ultimo treno per risollevarsi dalle condizioni sempre più dolorose in cui sono precipitate.

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