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L'ultima occasione

Nel 1962, in vista della svolta del centrosinistra, l’allora ministro del Bilancio preparò una Nota Aggiuntiva al bilancio dello Stato nella quale poneva il problema di quale politica economica avrebbe dovuto caratterizzare la nuova fase.

Al momento della ricostruzione post-bellica si era scelto un modello fondato sulla spinta dei mercati e tale scelta fino a quel momento si era rivelata comunque felice perché il Paese, partendo da una condizione iniziale di arretratezza diffusa, aveva davanti a sé grandi possibilità di crescita.

La Nota sosteneva che la spinta spontanea era in via di esaurimento e che quei tassi di crescita non si sarebbero mantenuti nel tempo senza il contributo di una politica di programmazione degli investimenti in grado di sciogliere i nodi strutturali dell'economia italiana. Proponeva a tal fine un patto fra le forze politiche e le forze sociali. Questa impostazione fu sostanzialmente respinta.

Nel resto degli anni Sessanta e negli anni Settanta, la crescita economica, pur continuando, registrò tassi progressivamente più bassi e fu interrotta da frequenti crisi della bilancia dei pagamenti. Cominciò a manifestarsi il problema dei deficit pubblici collegati alla spesa corrente.

All’inizio degli anni Ottanta, la svolta politica realizzatasi con il primo Governo non a guida democristiana consentì a un altro ministro del Bilancio di riproporre il problema e di rimettere al centro della politica economica gli investimenti in luogo dei consumi. Si introdusse un piano triennale di investimenti accompagnato da criteri rigorosi di selezione degli stessi, al fine di garantirne l’esecuzione tempestiva e un conseguente positivo riflesso sulla produttività e sull'occupazione.

La fine di quel governo portò al rapido abbandono di quell’impianto innovativo e si tornò alla pratica tradizionale di grandi programmi di investimento fondati sulla discrezionalità politica.

Il rifiuto della Nota Aggiuntiva aveva comportato il rallentamento dei tassi crescita. Il rifiuto del Piano triennale comportò un ulteriore rallentamento dei tassi di crescita e il Paese si acconciò al sostanziale ristagno che ha caratterizzato le sorti dell'economia italiana fino ai giorni nostri.

Il coronavirus e le sue conseguenze pongono di nuovo l'Italia di fronte a un bivio cruciale. L’epidemia scaricherà un peso enorme su una finanza pubblica già da tempo in condizioni molto gravi. Senza la crescita questa situazione è destinata ad aggravarsi.

È positivo che l'Europa abbia abbandonato le tradizionali politiche di austerità, che del resto avevano mostrato già da tempo i loro limiti, ed abbia collegato crescita e stabilità finanziaria. Ma non ci si illuda: il problema di fondo dell'Italia è riuscire a riavviare il meccanismo di sviluppo perché solo così essa può garantire a sé stessa e all'Europa l’indispensabile stabilità finanziaria. Il Paese deve modificare il proprio approccio al problema economico e deve imboccare la strada dello sviluppo. Nel 1962 l’alternativa era tra la continuità degli alti tassi di crescita e il loro rallentamento; nel 1982 l'alternativa era fra la crescita e la stagnazione. Oggi siamo alla resa dei conti, perché l’alternativa è fra ripresa e crisi del debito pubblico.

La politica, a differenza delle due precedenti occasioni, deve stavolta trovare il coraggio della lungimiranza.


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Su questi temi, vedi: L'Italia al bivio: stagnazione o sviluppo, di Enzo Grilli, Giorgio La Malfa, Paolo Savona

Ed. La Terza, collana Libri del tempo, 1985


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