Con questo articolo Il Commento Politico apre la rubrica Lettera da Parigi, per seguire da vicino le vicende francesi in quest’anno particolarmente importante che precede le elezioni presidenziali dell’aprile 2022
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Il giro di boa del primo anno di pandemia fa emergere – al di là del drammatico consuntivo delle conseguenze umane e socio-economiche del morbo – una serie di impalpabili danni collaterali. In tutte le nostre società, in Europa come altrove, si percepiscono, a tratti in maniera ancora embrionale, incrinature nella comune coscienza civile, nella stessa visione di fondo dello Stato di appartenenza e dell’identità propria alla nazione ed alla sua comunità di uomini e cittadini.
È così che in Francia vanno aprendosi le prime crepe in quella che sino ad oggi appariva come una certezza assoluta, granitica e trasversalmente condivisa: il dogma della «grandeur» che fino al recente passato era sopravvissuto ai mutamenti epocali della mondializzazione, alle dinamiche della dialettica democratica, al dibattito filosofico e ideologico e persino alle schermaglie mediatiche quotidiane fra partiti e movimenti: quelli cui ci si riferisce qui come alle molteplici «famiglie politiche».
Adattata nel corso della storia dalla visione dell’assolutismo di Luigi XIV a quella postrivoluzionaria e universalistica di Napoleone, sino alla configurazione della Va Repubblica; al netto del declino della primazia economico-commerciale e del dissolvimento dell’impero coloniale, ma ancora forte di posizioni esclusive nell’ordine internazionale (quali il seggio permanente in Consiglio di Sicurezza e una poco più che simbolica «force de frappe» nucleare), questa forma di ipertrofia dell’ego nazionale, corredata da una diffusa e fondata consapevolezza del proprio grande retaggio di cultura e di idee, sembra oggi perdere terreno ed unanime adesione di fronte al diffondersi del virus.
Serpeggia anzitutto - senza ancora esplicitarsi in una aperta ammissione di sconfitta o di mortificazione nazionale - la constatazione amara dell’impotenza di cui ha dato prova la patria di Pasteur in campo vaccinale. E se i progressi - a volte il significativo vantaggio di altri Paesi compresa l’Italia - vengono, come spesso accade qui, minimizzati o peggio disconosciuti, il naufragio del vaccino anticovid messo in cantiere dai ricercatori del mitico Istituto Pasteur ed i contestuali affanni di un gigante di «Big Pharma» come Sanofi, sinora sbandierati come altrettanti fiori all’occhiello nazionali, vengono sempre più frequentemente additati alla stregua di campanelli d’allarme di una regressione del Sistema-Francia. E ciò a dispetto del cospicuo sostegno anche finanziario loro assicurato in modo continuativo anche in tempi di crisi da uno Stato protettore, promotore e fortemente interventista.
Infragilita appare anche la stessa essenza autoreferenziale, direi ombelicale, della «grandeur» in molti altri campi, collegati anche solo indirettamente alla pandemia, senza nessi di vera causalità ma contestuali alla crisi sanitaria e non solo per caso.
Appaiono sempre meno impermeabili al «vento globale» alcuni paradigmi che agli osservatori stranieri nella Ville Lumière, anche ai più smaliziati, apparivano ardui da cogliere e da illustrare. Il peso specifico, il risalto mediatico, la febbrile solennità del rito annuale dei «Cesars du Cinéma» - il premio nazionale riservato al cinema francese - sono stati vissuti sinora come risvolti di una realtà di portata universale e non come una semplice alternativa «minore» agli Oscars hollywoodiani, come da noi i David di Donatello; ma piuttosto come in assoluto la massima celebrazione del «Cinquième Art» (secondo la classificazione echeggiata da Cocteau). E quindi ancora una volta alla stregua di una acritica ed enfatica esaltazione di una primazia tutta francese, diretta espressione della «grandeur». Il virus sembra aver indirettamente colpito anche questa certezza, così largamente radicata nella pubblica opinione. L’edizione dei Césars del 12 marzo scorso, adattata per forza di cose ai tempi dell’emergenza e quindi in modalità virtuale ma trasmessa in diretta televisiva, si è tradotta in un mediocre show da avanspettacolo ed ha suscitato – non solo presso gli appassionati ed i cinefili – un coro di stroncature e di critiche, per l’innegabile caduta di stile di una presentazione ai limiti dell’inconsistenza e della pochezza di contenuti. È stato in particolare lamentato che volare così in basso equivaleva a sferrare un duro colpo al principio stesso dell’indefettibile centralità della cultura e dello spettacolo nella società contemporanea: quel principio che, nell’anno del Covid, aveva funto in questo Paese (più che in ogni altro) da leit-motiv della narrazione dei danni immateriali del virus, punteggiata di quotidiani richiami di commentatori e opinionisti e di incessanti appelli al Governo per una riapertura degli spazi della Cultura, primi fra tutti cinema e teatri. E questo specie a Parigi che merita certamente - al di là di ogni velleitarismo - il titolo di capitale della proiezione cinematografica, per quantità e qualità. La stessa Ministra della Cultura, Roselyne Bachelot, che si era battuta senza risparmio di energie per questa causa fino a sfiorare la rotta di collisione con il Presidente ed il Governo, ha ostentatamente dismesso i panni della vestale dell’eccellenza e dell’eccezione francese, per condannare platealmente l’edizione di quest’anno dei Cesars che ha definito senza mezzi termini «navrante»: desolante, mortificante... Una presa di posizione pubblica cui si sono accodati esponenti dell’intellighenzia e della politica in assoluta controtendenza rispetto all’istintiva ed accanita protezione della specificità del cinema «made in France» sin qui sempre dominante: facendo così vacillare uno dei capisaldi dell’autoreferenzialità transalpina.
Sul piano storico e commemorativo, l’incarnazione più recente della grandeur, anzi il suo moderno teorizzatore e promotore in Patria e fuori, il Generale de Gaulle, ha mostrato di saper resistere ad ogni tentazione revisionista, come conferma la corale unanimità che ha accompagnato la solenne ricorrenza del cinquantenario della sua morte, celebrata in tutte le salse su tutti i possibili media, persino a mezzo di bizzarri cartoni animati su piccolo schermo. Non altrettanto può dirsi del suo illustre predecessore, Napoleone Bonaparte. Alla vigilia del bicentenario della scomparsa dell’Imperatore, il fatidico cinque maggio prossimo, ci si avventura a dibattere in pubblico - ed è davvero una prima assoluta per la Francia - dell’opportunità che gli vengano riservate apposite commemorazioni, contestata con clamore da una non irrilevante minoranza di opinionisti, per le sue vere o presunte responsabilità liberticide o espansioniste: un dibattito che solo pochi anni fa sarebbe stato stroncato sul nascere in nome della «grandeur» e che assume oggi gli stilemi spesso superficiali e già un po’ triti propri ad alcune nuove «causes célèbres», quali il ripudio dello schiavismo con il suo corredo violento di abbattimento di statue e monumenti e la condanna acritica e incondizionale di tutto il passato coloniale. La stessa cifra di lucida misura con la quale il Presidente Macron ha voluto affrontare pubblicamente questi temi, specie con riferimento alla Guerra d’Algeria, non sembra valere ad imbrigliare le più infuocate teorie iconoclaste, intese a travolgere, insieme a certezze storiche, anche la stessa immagine della «superiorità» della Francia.
Nel dilagare del morbo non solo nelle case di riposo, negli ospedali, nelle famiglie, ma anche nei media di tutti i tipi, alcuni profili rimangono costanti e continuano ad accomunare i comportamenti seguiti ovunque. Non cambia l’onda dello straripante numero di scienziati e di esperti che si affaccia anche qui con disinvoltura dai teleschermi nelle case di noi tutti con pareri e consigli non sempre armoniosi e concordi. Più accentuata tuttavia è la tendenza - direi pavloviana - ad ergersi anche in questo compito di divulgazione a strenua difesa dell’ipertrofico ego nazionale che sottende alla grandeur, di pari passo con l’innata propensione alla protesta e alla contestazione a tutti costi, in altri termini a quel «cattivo umore» di fondo che - secondo Cocteau - distingue i transalpini rispetto all’indole più sorridente e serena di noi italiani... Eppure, persino in questo campo, si intravvedono alcune fessure accompagnate a «denti stretti» dall’ammissione che si può forse far meglio altrove, sino a riconoscere a volte che le linee seguite da alcuni partners (senza riferirsi con deferenza soltanto a Berlino) meriterebbero di non essere sottostimate e potrebbero anzi servire di sprone.
Siamo di fronte ad una tendenza di autentico superamento del concetto stesso di «grandeur» - così come l’abbiamo conosciuta e in parte subita dal dopoguerra ad oggi - o si tratta soltanto di qualche avvisaglia destinata a «rientrare» con l’uscita tanto auspicata dal tunnel della pandemia? L’importante per gli amici ed i partners della Francia è forse saper cogliere tempestivamente queste avvisaglie per accompagnarle ed assecondarle, evitando con cautela e chiaroveggenza nuovi pretesti per il ritorno ad un arroccamento su tetragone posizioni passatiste.
Per l’Italia in particolare, il principale quadro di riferimento per cominciare ad immaginare nuove strategie ed una road map per il futuro rimane naturalmente quello europeo, accompagnato dal rilancio su nuove basi del rapporto euro-atlantico, un obiettivo che i primi passi della nuova Amministrazione americana e la stessa partecipazione di Biden al Consiglio Europeo di questa fine di marzo - così forte simbolicamente - sembrano indicare come una delle risultanze ipotizzabili ed auspicabili alla fine del tunnel pandemico.
Sappiamo bene quanto abbia pesato sull’andamento delle relazioni fra Roma e Parigi lo squilibrio innescato da questo lato delle Alpi dal dogma della «grandeur»; lo stesso de Gaulle alla ricerca di una normalizzazione paneuropea dei nostri rapporti bilaterali all’indomani del conflitto, aveva voluto privilegiare alle radici celtiche dei Galli la comune eredità romana ed aveva coniato l’espressione delle due «sorelle latine», unite per la costruzione della nuova Europa. Senza mai esplicitare il corollario implicito in questa formula, che - nella sua visione - conservava ovviamente alla Francia il ruolo di primogenita relegando l’Italia a quello di cadetta. Questo squilibrio, cui si accompagna - quasi come un contrappeso - un indiscusso amore dei francesi per l’Italia - quella della romanità, del Rinascimento, delle arti, della bellezza e persino della... gastronomia - ha gravato sul proficuo maturare di moderne relazioni basate su principi di vera parità e reciprocità. Da un lato ci si è attenuti ad un benevolo ma sussiegoso paternalismo di facciata, dall’altro si è conculcata più di una volta ogni tentazione di rivalsa, cedendo però non di rado al ricorso a querule, quanto controproducenti lamentele.
Quella che è stata definita come una relazione speciale assimilabile ad un legame fra consanguinei (fratelli, cugini?...) ha conosciuto anche momenti critici acuti al limite della incomunicabilità o della quasi-rottura. Se abbiamo per parte nostra - per far solo un esempio - dovuto subire la tetragona impostazione di Parigi all’epoca del terrorismo «rosso» e la ostentata protezione estesa ai potenziali estradandi italiani rifugiatisi in Francia, più di recente non abbiamo da parte nostra esitato dal non... comportarci sempre da membri di una stessa famiglia: ne testimonia fra tutti il vulnus creato dall’inspiegabile - e per fortuna effimero - flirt con i «gilets gialli»...
La pandemia, nel frattempo, ci ha cambiati tutti. In Europa, il paradigma assoluto non è più per la Francia la sola Germania di Angela Merkel che, umanizzata dal morbo, si avvicina, fra luci ed ombre, alla sua uscita di scena. Macron, dal canto suo, sa bene che la sua non scontata riconferma passa ancora una volta per il rilancio della costruzione europea ed è consapevole, più di ogni altro suo predecessore, che dell’avanzamento di questo disegno deve far parte - specie dopo la Brexit - in primo luogo l’Italia, nel gruppo di testa degli Stati membri.
L’avvento di Mario Draghi alla guida del Governo e di Enrico Letta a quella del Partito democratico, sono per il futuro delle relazioni franco-italiane una duplice occasione da non perdere, perché accomunati dal necessario pragmatismo, da una vera, profonda vocazione europea e da una approfondita e lucida conoscenza della realtà francese, con i suoi limiti, ma anche con quanto merita di venir preservato della sua perdurante «grandeur».
l'Abate Galiani
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