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Le Province: mala tempora currunt et peiora premunt

Leggendo gli ultimi resoconti della Commissione Affari Costituzionali del Senato si scopre che sono state presentate ben nove proposte di legge per riesumare le Province (e regolamentare le città metropolitane) dal limbo in cui erano state accantonate dalla Legge 56/2014, cosiddetta Legge Delrio.

Tale legge rese le Province e le dieci città metropolitane (Roma, Milano, Torino, Napoli, Firenze, Bologna, Genova, Venezia, Bari e Reggio Calabria) istituite nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, enti di secondo livello in attesa della cancellazione delle Province prevista dalla legge di modifica costituzionale del Governo Renzi che però, come noto, non passò il referendum nel dicembre 2016.

Nelle nove proposte di legge sono rappresentati quasi tutti i gruppi parlamentari del Senato: così il PD ne ha presentate tre con primi firmatari i Sen. Astorre, Valente e Mirabelli e da ultimo il Sen. Parrini.

Il Sen. Silvestroni di FdI ne ha presentate due ed una ciascuno il Sen. Romeo della Lega, Ronzulli di Forza Italia, Gelmini di Azione-Italia Viva e da ultima anche la Sen. Maiorino del M5S, la cui voracità anti-casta si sarà forse saziata con il taglio dei parlamentari.

La questione che si pone è se effettivamente servono ai cittadini le Province con tanto di specifiche competenze amministrative e legislative, con propri organi eletti oltre evidentemente proprie fonti di finanziamento, casomai aggiungendo alle attuali addizionali regionali e comunali IRPEF anche quella provinciale.

Riflettere sulle Province significa riflettere su quanto previsto originariamente in Costituzione sulle autonomie territoriali e sull’adeguatezza e congruità delle modifiche costituzionali intervenute, per non parlare di quanto si va profilando in materia di “autonomia differenziata”, uno dei versanti di quella sorta di “pactum sceleris” della maggioranza che sull’altro versante vede il “presidenzialismo”, ancor non meglio definito.

Materie alquanto complesse che necessiterebbero una più ampia e dettagliata analisi e che in questa sede si riassumono solo per titoli e richiami volti a dimostrare la schizofrenia con la quale si è trattata nei vari decenni una materia estremamente delicata come quella costituzionale, schizofrenia che ha badato e bada più agli interessi di parte e/o del “ceto politico” che a quello generale del buono, ordinato ed efficace funzionamento degli organi costituzionali e delle articolazioni territoriali.

L’Assemblea Costituente aveva sancito all’art. 114 che “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”, ma a parte le cinque Regioni a statuto speciale (Val d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia) si dovranno attendere ben ventidue anni per veder nascere le restanti quindici Regioni.

Gestazione non a caso lunga e travagliata che fece vedere la luce a creature abnormi rispetto alle competenze progettate che dovevano riguardare soltanto funzioni legislative, programmatorie e di controllo e che invece invasero a man bassa anche quelle amministrative, a cominciare dalla sanità.

Non a caso Ugo La Malfa, alquanto scettico sull’opportunità dell’istituzione delle Regioni come si andavano delineando, chiese a gran voce almeno la soppressione delle Province che non avevano più motivo di esistere vista l’esiguità delle competenze rimaste, rimanendo purtroppo inascoltato, né è motivo di consolazione verificare ex post ancora una volta la lungimiranza delle sue posizioni.

Nel 2001, per arginare poi la deriva “devoluzionista” della Lega, la maggioranza di centrosinistra in coda alla XIII° Legislatura approvò la sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione, confermata dal referendum dell’ottobre in cui si registrò un’affluenza solo del 34% degli aventi diritto.

Con tale modifica, tuttora operante, l’art. 114 è stato riscritto così: da “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni” si è passati a “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Si noti l’eleganza politica e costituzionale di porre lo Stato allo stesso livello degli enti territoriali!

Le autonomie territoriali da “ripartizione” assunsero quindi “valore costituente” della Repubblica creando le Città Metropolitane, mentre alle Regioni vennero assegnati più vaste competenze introducendo in molte materie la cosiddetta “legislazione concorrente fra Stato e Regioni”.

La nuova declinazione del Titolo V ha favorito innumerevoli casi di conflitto di competenza con ricorsi alla Corte Costituzionale che hanno causato costi e ritardi disastrosi, oltre a rendere inadeguata la macchina amministrativa.

Qualche tentativo, sfortunato per non dire maldestro, fu operato dal Governo Renzi per porre rimedio alla modifica del Titolo V, abolendo Province e CNEL, modificando il sistema del bicameralismo perfetto.

In previsione di queste modifiche costituzionali, l’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, on. Graziano Delrio, presentò la legge n. 94 approvata il 7 aprile 2014 con la quale, oltre ad individuare dieci Città Metropolitane, rese queste e le stesse Province “enti di area vasta” senza elezione diretta degli organi.

La Legge Delrio è tuttora vigente e quindi abbiamo ancora in Costituzione le Province con competenze assai discutibili, assolutamente insufficienti per giustificarne l’esistenza, mentre vige ancora la sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione con tutto il suo nefasto portato.

E se tutto ciò non bastasse, è cominciato l’iter di approvazione dell’autonomia differenziata, la cosiddetta Legge Calderoli.

In un articolo di Italia Oggi del gennaio 2020, il bilancio sull’esperienza di cinquanta anni delle Regioni è a dir poco negativo né quanto è previsto nel testo dell’autonomia differenziata induce a una qualche forma di ottimismo.

Così, come affermato dal Sen. Calderoli e ribadito con grande fermezza dallo stesso Sen. Salvini, le Province ritroveranno nuova vitalità anche grazie a quanto va emergendo in Senato nella Commissione Affari Costituzionali, dove la stessa relatrice Daisy Pirovano (sempre della Lega) ritiene non impossibile arrivare in tempi stretti ad approvare un unico testo condiviso.

Certo oggi non sussistono analoghe condizioni di contesto che favorirono fra la metà del 1946 e l’inizio del 1948 la nascita di una Costituzione che dai più viene spesso definita “la più bella del mondo”, salvo tentativi di modificarla a proprio uso e consumo e senza tenere in nessun conto l’esperienza maturata negli ultimi 75 anni soprattutto in ordine alle autonomie territoriali.

Esperienza che indurrebbe a ridisegnare la geografia istituzionale delle autonomie informando le misure su esclusivi criteri di efficacia ed efficienza, senza moltiplicazione di inutili livelli, né disgregazione dell’unità del Paese con l’autonomia differenziata e tentazione di accentramento di poteri con il presidenzialismo.

D’altronde i principi fondanti della Carta Costituzionale mal si conciliano con i “valori” delle prevalenti forze di maggioranza.

Sarebbe invero quanto mai opportuno che le varie proposte di legge per la riesumazione delle Province rimanessero a marcire sugli scaffali della Commissione Affari Costituzionali del Senato, mentre sarebbe invece necessaria un’attenta verifica dell’adeguatezza attuale delle Regioni rispetto agli effettivi bisogni dei cittadini.

E se proprio dovesse risultare insopprimibile la ricorrente pulsione delle modifiche costituzionali da parte dei Gruppi Parlamentari, si riscriva il vigente Titolo V e con l’occasione si eliminino le Province.

Il pessimismo della ragione c’induce però ad ipotizzare il peggio, né purtroppo notiamo da parte delle opposizioni un’idea chiara e condivisa dello Stato, delle sue articolazioni e dei necessari equilibri di potere.

In breve: “mala tempora currunt et peiora premunt”.


Maurizio Troiani


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