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Le sfide di Macron fra popolo della protesta e polulisti

Lettera da Parigi


Manca oramai meno di un mese alla formalizzazione delle candidature per il primo turno delle presidenziali, con il loro deposito presso il Consiglio Costituzionale che segna, a sua volta, l’avvio della campagna elettorale ufficiale sull’arco del mese successivo.

Il clima generale che regna nel Paese, gravido di attese, di contrasti e di interrogativi, non sembra contribuire, ad oggi, all’avvio di un vero confronto sui progetti e sui programmi. Non mancano, è vero, proposte ed idee – non di rado fantasiose quanto di fatto impraticabili - che vengono disordinatamente avanzate dai principali attori in commedia e che valgono prevalentemente da detonatori per artificiose polemiche ed attacchi anche personali fra loro, spesso al calor bianco.


E se, da un lato, contribuiscono a definire più nitidamente i contorni delle personalità di ciascuno (e la carica di carisma individuale a sostegno della perseguita leadership, così rilevante nel semi - presidenzialimo francese), sono a tal segno virulenti ed oltranzisti da ingenerare un’atmosfera di generalizzata confusione e disordine, che sconcerta l’elettorato, accentua le incertezze e la tentazione crescente all’astensionismo, promuove miriadi di iniziative isolate di incitazione alla protesta e alla contestazione di piazza; quasi che le urne – che si apriranno ormai fra poche settimane – non fossero più considerate come la sede primaria della partecipazione politica e della dialettica democratica.


Dai vari schieramenti, si finisce quindi per convergere su un filo rosso comune, sempre meno attendibile nella sostanza, ma fortemente enfatizzato dai media e dall’armamentario di tatticismi e di artifici propri all’era del digitale. Si concentra così su Macron e sul consuntivo del suo primo mandato l’essenziale delle critiche e delle rappresentazioni catastrofiste e “decliniste”; in una inedita e speciosa assonanza fra praticamente tutti i suoi sfidanti potenziali.


Quanto siffatta linea possa valere ad incidere profondamente sull’elettorato è, anche a parere di tutti i sondaggisti, una incognita ancora indecifrabile. Attiene infatti alla valutazione imperscrutabile della vocazione contestataria e “rottamatrice” innata nel popolo francese, nel suo insieme profondamente frastagliata e, forse per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, sprovvista degli ancoraggi ideologici e partitici della tradizione; per ciò stesso ancor meno prevedibile e ancor più pericolosa. Una possibile valvola di sfogo, in altre parole, per quella disaffezione globale alla politica, spregiudicatamente cavalcata – qui come altrove – dall’ondata “populista” in salsa francese che ha contagiato, soprattutto a destra, ma non solo, i principali attori politici e un manipolo di comprimari particolarmente scatenati, alla ricerca di notorietà più ancora che di suffragi reali.


In questo quadro, Emmanuel Macron – solitario ma non isolato – forte della tenuta costante delle intenzioni di voto che continuano stabilmente a collocarlo in testa alla corsa, mantiene la strategia da tempo adottata: quella di ritardare ancora la discesa in campo e far valere integralmente il prestigio ed il peso di un mandato scrupolosamente esercitato alla luce del coerente impegno europeo e coerente con l’enunciazione originaria del suo progetto per la Francia. I vantaggi (anche mediatici) di tale linea, livorosamente contestata dalle opposizioni, appaiono per ora superiori agli inconvenienti e consolidano una base di consensi che dovrà però, prima o poi, misurarsi con l’onda d’urto dell’ “anti-macronismo” ad oltranza: quello già manifesto dei suoi detrattori a destra come a sinistra, e quello – altrettanto insidioso – che pervade il risentimento di ampie e meno esplicitamente definite fasce popolari.


La coraggiosa – anche se per ora del tutto interlocutoria – iniziativa per l’Ucraina, con la maratona Mosca-Kiev-Berlino, sembra aver segnato qualche punto a suo favore, non tanto per risultati concreti, quanto per la restaurata immagine di una Francia autorevole e protagonista, in linea anche con la tradizione golliana, che ha proiettato nell’opinione pubblica.

Altrettanto incisiva sembra l’occupazione del centro della scena politica, con il lancio – sul sito poli-industriale di Belfort – di un ambizioso programma di rilancio del nucleare, nel medio-lungo periodo, in una dimensione transitoria, che permetta realisticamente di affrontare in maniera sistemica la questione energetica e ambientale, consentendo al contempo lo sviluppo di fonti alternative, come l’eolico off-shore.


La portata di queste – come di altre iniziative, ed in particolare la ripresa in mano, nel segno di una prudente riapertura, del dossier sanitario – non sembra poter essere tralasciata dai media, che, quasi “obtorto collo”, si distolgono dalla incomprensibile deriva delle ultime settimane che aveva condotto persino i più equilibrati fra i commentatori a cadere nella pania della quotidiana rilevazione ed esegesi dei sussulti nella lotta fratricida a destra, con gli insulti, gli improperi e i tradimenti incrociati fra le due frange “ultra”. Senza tralasciare l’affanno dell’inseguitrice neo-gollista, tentata più di capitalizzare su qualche proposta anch’essa di segno estremista, che di attirare il tradizionale elettorato di centro-destra, orfano della tradizione pragmatica, moderata ed europea del suo partito di appartenenza. Dimentica di averlo riabbracciato solo l’autunno scorso dopo averlo a lungo disertato per una presa di distanza proprio da quella virata a destra che oggi costituisce invece il nerbo della sua linea politica.


Un primo scotto a questa incoerenza, Pécresse lo paga in questi giorni, proprio alla vigilia del suo primo grande raduno programmatico del 13 febbraio a Parigi, con la clamorosa defezione di Eric Woerth, apprezzato Ministro delle Finanze e delle Riforme di Sarkozy e da anni Presidente della Commissione Finanze dell’Assemblea Nazionale. L’annuncio del sostegno a Macron di un esponente di lungo corso de “les Républicains”, considerato – malgrado qualche trascorso giudiziario – di grande competenza ed equilibrio, non è forse suscettibile di provocare massicci spostamenti di consensi nell’elettorato, ma ha già provocato, con la sua abiura al Partito, le dimissioni dalla Commissione parlamentare, la scesa in campo a fianco del Presidente motivata dalla sua fiducia nel suo programma economico (incluso il debito del quoiqu’il en coute), energetico ed europeo, un vero e proprio terremoto fra i neo-gollisti e nella squadra che sostiene Valérie Pécresse; oltre ad insinuare dubbi e sospetti sull’orientamento di fondo che ispira nei confronti della candidata repubblicana l’ambiguo atteggiamento “non allineato” di Nicholas Sarkozy, malgrado tutto ancora molto influente sugli animi neo-gollisti.

Vi è chi sussurra che l’ex Presidente (di cui si riporta una certa insofferenza nei confronti di Pécresse) continui a “suggerire” confidenzialmente alcune idee alle orecchie di Macron e che per il dopo elezioni, si sia spinto a suggerirgli l’ipotesi di una candidatura di Christine Lagarde (sua antica Ministra dell’Economia) al posto chiave di Primo Ministro di un Governo sostenuto da una coalizione allargata alla componente più “ragionevole” della destra repubblicana.

Si tratta per ora di incontrollati pettegolezzi di Palazzo, ma quel che è certo è che suscitano attenzione anche in seno alla maggioranza presidenziale ed in particolare presso Edouard Philippe che, a passi felpati, sta entrando a sua volta “in medias res” dell’agone elettorale. E questo anche nella prospettiva di una chiamata a raccolta di fronte ad un ballottaggio in cui, di fronte a Macron, dovesse presentarsi un esponente dell’estrema destra, per la prima volta valutato complessivamente oltre il 45%.


Volendo privilegiare il “bicchiere mezzo pieno” rispetto al desolante disorientamento di cui è preda una campagna sinora tossica e inconcludente, si potrebbe ipotizzare che vada infoltendosi la compagine dei più saggi e sperimentati “players” della politica francese, che sembrano aver finalmente metabolizzato quella trasformazione profonda introdotta fin dal 2017 dall’avvento di Macron. Essa postula, dopo la disgregazione del quadro politico, una paziente e lunga azione di riconciliazione e di ricomposizione, che una tregua anticipatamente concordata, connaturata con la possibile rielezione dell’attuale inquilino dell’Eliseo, potrebbe forse contribuire a stimolare se non addirittura ad accelerare.


Resta però il bicchiere mezzo vuoto: quello della ostinata resistenza della vecchia politica politicienne, dell’incorreggibile pratica dei piccoli giochi di potere, del rigido schematismo ideologico, dell’avversione ad ogni cifra di composizione pragmatica fra campi diversi, sommariamente e sprezzantemente liquidata come “combinazione” all’italiana. Ne profittano sfacciatamente gli apprendisti stregoni del populismo e la sorda malevolenza del popolo della protesta: come dimostra la crescente fibrillazione che va provocando la “calata” su Parigi del “convoglio della libertà”, il corteo di Tir contro il pass vaccinale, a servile ed incongrua imitazione della vicenda canadese, che minaccia per questo fine settimana la quiete della capitale. L’incubo dei Gilets Jaunes e delle violenze anti-vax ricompare, pur nella sua presumibile esiguità numerica, e si aggiunge, con la carica emotiva degli scontri urbani da scongiurare, alle tante incognite proprie alla sfida di Macron.

l’Abate Galiani

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