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Ricordando Pearl Harbour nell’America divisa


Lettera da Washington


Dopo un lungo autunno, il cielo da queste parti è affollato di nuvole basse; gli sprazzi di sole non durano e le ombre si allungano. Anche la lista dei guai si allunga. Il COVID si comporta come le grandi aziende, prima che la domanda declini esce il nuovo modello, per una nuova annata. La pandemia continua a stimolare sottili mutamenti nella nostra vita e nella nostra società, cui ci adattiamo quietamente inseguendo la nuova normalità. Ma qui non è questa la maggiore preoccupazione. Più grave è l’aperto contrasto tra due opposte visioni della nazione, irrisolto a più di due secoli dalla sua fondazione, che animano il popolo di Trump e quello che oggi sostiene Biden. Perciò quest’anno che sta per finire sarà segnato dalla dall’aperta spaccatura della nazione.


L’esistenza di questo fossato è grave e foriera di pericoli per l’America e per il mondo, perché ha oramai superato i confini del dibattito di idee. La macchina politica del paese stenta a far prevalere un consenso, una sintesi che non escluda nessuna parte della nazione. Questa America divisa, che ci si è palesata con violenza pochi mesi or sono, è oggi pienamente impegnata a lottare con sé stessa. E, se si deve giudicare inoltre dalla recente esperienza di Kabul, che ha segnalato l’ansia di trincerarsi, vi sono anche i sintomi di una ridotta proiezione verso l’esterno, nonostante le intatte risorse e capacità di cui l’America dispone.


C’è stata grande attesa nei giorni scorsi per gli esiti dell’annunciato incontro tra Biden e Putin, avvenuto in pieno stile COVID, cioè in formato virtuale: segno di urgenza, e non di protocollo. Principale ragione del colloquio è stata l’Ucraina e i movimenti di truppe che indicano che siamo in presenza di una situazione in corso di rapida evoluzione. Le dichiarazioni al termine del duro confronto non sono state concilianti: gli Usa hanno minacciato “misure specifiche e robuste” se l'escalation russa in Ucraina non avrà termine. Putin ha denunciato la responsabilità della Nato, che “sta facendo pericolosi tentativi di conquistare il territorio ucraino e sta aumentando il suo potenziale militare ai nostri confini". Ha perciò chiesto "garanzie affidabili" sullo stop all'espansione dell’Alleanza Atlantica nell'Europa dell'Est e al “dispiegamento di sistemi di armi offensive d'attacco negli stati adiacenti alla Russia." Alla fine, come recitano i documenti ufficiali, i due presidenti hanno incaricato “i loro rappresentanti di impegnarsi in consultazioni sostanziali sulle questioni delicate".


Come in altri casi, tuttavia, quello dell’Ucraina è in America anche un tema di politica interna, data l’esistenza di una comunità di questa origine che ha superato il milione di abitanti e che conta numerose personalità; tra queste, basta citare Chuck Schumer, senatore dello Stato di New York e leader della maggioranza democratica al Senato.


Il momento è delicato. Oggi i regimi autoritari nel mondo, che non si limitano alla Russia di Putin, potrebbero essere tentati di ritenere che l’America reagirebbe solo svogliatamente dinanzi ad aggressioni contro paesi amici o alleati operate singolarmente da una coalizione del club degli autocrati armati. Potrebbero ritenere che in un periodo di involuzione nazionale, con un ex-Presidente dal futuro incerto tra condanna penale e rielezione, e metà paese che non crede nella possibilità di accordarsi con l’altra metà, l’America chiuderebbe gli occhi e volterebbe le spalle; ma sarebbe un immenso errore. Perché un’aggressione, diretta o indiretta, sarebbe una sfida, e la reazione americana alle sfide è sempre stata quella di una riunificazione nazionale immediata e incondizionata. Fu così per Pearl Harbour e anche per l’attacco alle due Torri di New York (quando la reazione militare si mise in marcia addirittura prima ancora di aver ben capito contro chi).


È lapalissiano che l’America abbia competitori e nemici. La differenza è che questi ultimi considerano gli Usa non solo un rivale da superare, ma anche il principale ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi nazionali, ed è questo che fa superare la soglia dalla competizione alla ostilità. I nemici sfruttano le debolezze delle nazioni che vogliono aggredire. Ma una simile tattica, per quegli avversari che oggi volessero fare leva su una presunta impotenza americana, potrebbe innescare esplosivi conflitti.


Il 7 dicembre, giorno dell’incontro fra Biden e Putin, ricorreva l’anniversario, esattamente ottant’anni fa, di Pearl Harbour: allora l’attacco giapponese ebbe successo, ma aprì la via agli eventi che portarono alla distruzione di chi lo aveva architettato e dei suoi alleati. La guerra cominciata col bombardamento delle Hawaii finì con quello di Nagasaki, segnando l’avvio dell’egemonia americana per il resto del XX secolo. Ironicamente, lo “spazio vitale”, cui aspiravano le potenze dell’Asse, si realizzò invece nella pace - ma fu pagato con 75 milioni di morti e consacrò delle frontiere alla fine poco diverse da quelle del 1939. Non era certo questo lo scenario immaginato dagli strateghi dell’Asse. Se un errore di valutazione è già stato all’origine di quel conflitto mondiale, adesso, mentre l’umanità riflette sulla prospettiva della propria estinzione, non c’è posto per un altro simile catastrofico errore. Ci auguriamo che gli aggressori di oggi sappiano riflettere su questa verità.

Occorre, d’altra parte, nutrire speranza che l’America dei nostri tempi non si discosti dal testamento dei padri della patria, e che la sua radicalizzazione interna, che rappresenta una tentazione per i suoi competitori nel mondo, trovi un ritorno alla dialettica politica e sociale seguendo le vie della democrazia; allontanarsene non porterebbe vantaggio a nessuna fazione.


Franklin

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