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Salpare le ancore

Lettera da Washington


Molto polverone sull’incontro di Anchorage, così come sulla franchezza di Biden nei riguardi del suo collega di Mosca.

Eppure nessuno si aspettava una tranquilla continuazione della politica estera di Trump. Anzi, la prima pagina del New York Times giovedì scorso anticipava che l’inaugurazione della diplomazia d’alto mare americana, al suo primo incontro con la Cina, avrebbe affrontato “un’atmosfera tesa”. Era questo che ci si aspettava, anche se è risultato un po’ un “understatement”.

Gli ultimi quattro anni ci avevano quasi abituato a una diplomazia americana fatta di bruschi cambi di direzione, arresti improvvisi, nuove partenze inattese, con una forte componente transazionale rapportata a qualche diretto interesse a corto raggio: certamente utile nei sondaggi di opinione, essendo quest’ultima alimentata anche dal mito dello sfruttamento spietato dell’America da parte di tutti, amici e nemici. Dicendoci che l’America era ritornata, Biden certamente non intendeva annunciare un’America supina o interessata solo alla coltivazione di interessi di parte, bensì dimostrare un deciso cambiamento di rotta rispetto al recente passato per ricollegarsi a un passato precedente.

Così come per rivendicare una posizione di leadership nel mondo occidentale il fattore unificante non può certamente essere “prima l’America”, non basta ora peraltro riaffermare i sacri testi. Le inquietudini dell’America interna, strumentalizzate da Trump, sono reali, e una politica estera radicata su una visione fedele agli ideali della nazione non può trascurarle. Al tempo stesso, come rassicurare agricoltori ed operai americani inquieti per le sorti dei loro mercati tradizionali (cominciando da quello interno) e affrontare lo stridente contrasto tra la nazione unita dagli ideali e quella divisa dagli interessi; come radunare ancora sotto lo stesso tetto i paesi del mondo per creare uno spazio delle democrazie, se non rivolgendosi ai principi fondatori e compiere il gesto pubblico e meditato di riaffermarli, pur sapendo di irritare l’interlocutore. Sarà sempre meno possibile enunciare precetti all’estero senza applicarli in casa, dove la pandemia in corso ha esasperato le disuguaglianze che persistono in seno al paese; in questo senso, il discorso di Anchorage appare diretto in parti uguali all’estero e al pubblico nazionale. Se la pubblicità di questa presa di posizione aumenterà la pressione per applicare uguale chiarezza nel rettificare le discriminazioni e le colpevoli tolleranze che resistono negli stati dell’Unione, sarà un segno di reale impegno.

È impossibile infatti mantenere due rotte diverse allo stesso tempo. Una America che si impegna a seguire i principi fondatori della propria democrazia, che sono sostanzialmente quelli dell’Illuminismo europeo e sono ora riflessi in grande misura nel diritto delle genti, non può più farlo solo in patria o solo all’estero. Il nuovo ambasciatore americano alle Nazioni Unite, nel suo intervento inaugurale un paio di giorni fa non solo ha riconosciuto questa premessa, ma ha fatto stato della propria esperienza di donna di colore per affermare l’impegno dell’America, sotto questa gestione, a darle contenuto.

Se questo sarà il programma, potrà Biden incidere seriamente su temi così profondi, viscerali, della nazione, potrà vincere la riluttanza che traspira dall’estero, e ne avrà il tempo? Si ricorderà che il grande visionario della storia politica americana del dopoguerra fu Kennedy; si ricorda di meno che fu invece Johnson, portato alla Casa Bianca da un solo tragico episodio e per un solo mandato, che senza avere il fascino di JFK cambiò l’America aprendo la via all’emancipazione. Non facciamoci tentare dal vedere fin d’ora Biden come un presidente accidentale.

L’incontro di Anchorage conferma intanto che la sua diplomazia, per l’appunto, ha salpato le ancore e non si tira indietro - e nemmeno quella cinese. In altre circostanze, l’incontro sarebbe finito lì; ad Anchorage, a porte chiuse, si è ripreso a lavorare.

Senza dubbio anche noi europei dovremo fare un esame di coscienza, e non basterà applaudire dalla tribuna. Abbiamo anche noi le nostre disuguaglianze, e si riflettono anch’esse nei rapporti col mondo esterno (vedi le questioni dell’immigrazione), ma abbiamo la possibilità di lavorare per correggerle in patria e all’estero, individualmente ed insieme. Abbiamo interesse in un mondo in cui la certezza del diritto sia un fatto, e non solo un’espressione, e un mondo i cui problemi siano affrontati insieme, e non contro, gli altri. I rapporti internazionali non sono a somma zero. Anche noi, come l’America, abbiamo tutto da guadagnare dal perseguire un mondo che si ispira a princìpi: ci offrono chiarezza e coerenza, e ci obbligano a guardare lontano.


Franklin

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