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Usa, elezioni senza fine

Lettera da Washington


Democrazia ed elezioni sono inscindibili; le seconde sono la condizione necessaria ma non sufficiente per la prima, e anche per questo non si deve pensare che si riducano all’atto di un giorno: sono il giudizio del popolo su un programma politico e insieme anche la pagella del recente passato. La loro preparazione precede di gran lunga il voto e soprattutto qui in America non c’è più separazione tra un periodo elettorale e il successivo. Si può dire che la campagna per le prossime elezioni (nel 2022 il Congresso, nel 2024 Congresso e Presidenza) sia cominciata non più tardi del giorno dopo il voto del 2020 che ha consacrato Biden alla Casa Bianca. Non sarà una campagna facile, e il clima non è sereno.


Un aspetto di questo stato di cose è che il mutevole equilibrio tra le forze in campo fa crescere la tentazione di mettere mano alle regole stesse della contesa, cioè di alterare i sistemi elettorali in modo da favorire il proprio partito. Questo è favorito dal fatto che non vi è negli Stati Uniti un sistema federale di voto, ma le leggi elettorali variano da Stato a Stato e spesso si prestano ad essere manipolate.


Già in tempi normali il partito Democratico sconta - per ragioni storiche e demografiche - un handicap di qualche milione di voti, consolidato nel sistema elettorale esistente; ma poiché nemmeno questo vantaggio può garantire un successo ai loro avversari, questi ultimi sono ora più che mai impegnati a usare i poteri degli Stati da loro controllati per precostituire vantaggi a proprio favore. Se avranno successo, l’esito del voto allontanerà l’America dalla realtà della democrazia, e questo è un pericolo che dopo lo scorso 6 gennaio - giorno dell’assalto al Congresso da parte dei sostenitori di Trump - non si può più ignorare, né le sue eventuali conseguenze possono essere trascurate.


Quali sono i pericoli all’orizzonte? Il 6 gennaio si è aggiunto all’11 settembre del 2001 e alla lunga lista delle date dolorose e significative per gli USA; ma quest’ultimo episodio ha rivelato a un mondo sbigottito lo spettacolo senza precedenti di una nazione che è stata vicina a confondersi con una repubblichetta bananiera. L’abbiamo tutti scampata bella, in America e nel mondo - ma per un pelo, come confermano le testimonianze che ora affluiscono in abbondanza. È stato un momento degno di una tragedia greca, in cui la democrazia americana non è stata salvata dalla difesa opposta dagli assaliti, ma dal ravvedimento di pochissimi che pure militavano con gli assalitori.


Se l’allora vicepresidente Pence, invece di seguire la propria coscienza avesse accettato di avallare i pretesi dubbi sui voti, la nomina del Presidente sarebbe passata alla Camera dei Rappresentanti dove ogni Stato avrebbe avuto un voto: essendovi Governatori Repubblicani in 26 su 50 Stati, Trump, pur se giudicato un usurpatore davanti alla storia, avrebbe potuto essere legalmente il Presidente degli Stati Uniti.

Purtroppo, non c’è spazio per compiacersi di questo pericolo scampato. Si deve essere consapevoli che la reazione di orgoglio di un paio di dirigenti del partito può salvarci una sola volta: non contiamoci per il futuro. Se ci sarà un altro assalto dall’interno alla democrazia americana, non possiamo essere sicuri che ci sarà più, alla fine, la provvidenziale barriera di un Vice Presidente onesto. Un futuro golpista certamente prenderà le precauzioni del caso. E questa è una delle nubi che aleggiano nel cielo di questo particolare novembre.


Ma anche se questo rischio fosse irripetibile, ce ne è un altro meno plateale: perché ridursi a un colpo di mano quando si può vincere con destrezza anziché con la violenza?

In America le elezioni si tengono per legge ogni novembre, ma non occorre aspettare: si possono vincere in qualsiasi momento, senza nemmeno andare alle urne. Il modo più sicuro consiste infatti nel manipolare il processo elettorale, e questo, purtroppo, non è impossibile.


Fra le vie che si prestano a questo fine, tre sono particolarmente insidiose.


La prima e la più subdola consiste nell’assicurarsi che la presidenza di un Democratico sia caratterizzata dal vuoto legislativo, così da scoraggiare i suoi sostenitori: per esempio, con il boicottaggio parlamentare decretato dai Repubblicani, l’eredità di Obama negli otto anni del suo mandato è stata ridotta a un solo provvedimento importante (la legge sulla sanità); una tattica identica viene ora impiegata contro Biden.


Una seconda via consiste nel rendere il più difficile possibile l’esercizio del voto, sapendo che una parte significativa dell’elettorato democratico, che si rivolge alle classi più umili, semplicemente non ha i mezzi per affrontare questa specie di gimcana a ostacoli che è il sistema elettorale americano. Si vota solo in un giorno lavorativo (così i salariati devono sacrificare un giorno di stipendio), occorre iscriversi nelle liste elettorali (niente iscrizione d’ufficio), le variazioni di residenza sono rischiose e possono invalidare il voto, il voto per corrispondenza è aleatorio (non si sa mai se arriverà in tempo per essere contato), i seggi elettorali sono pochi rispetto alla norma che conosciamo in Europa e possono essere distribuiti in modo tale da favorire l’affluenza nelle zone dove sono concentrati i propri sostenitori ma scoraggiare l’affluenza dei sostenitori dell’altro partito. Possono essere concentrati nei quartieri che interessano a chi detiene il governo locale, inoltre raramente sono agevoli per le minoranze e le file sono lunghissime, costringendo a ore e ore di attesa. La lista di queste sostanziali violazioni della parità dei diritti degli elettori e delle discriminazioni a danno dei propri avversari è lunga e si sta allungando ulteriormente, con l’effetto di concentrare il potere del voto nelle mani di pochi.


La terza, forse l’arma più temibile, è infine il nefasto e ben conosciuto “gerrymandering”, che dopo ogni censimento decennale consente a chi controlla il potere in uno Stato di ridefinire le mappe delle circoscrizioni elettorali, dandogli l’occasione per far sì che il maggior numero dei voti favorevoli o contrari si trovino concentrati nel minor numero possibile di distretti, e inversamente per i propri: in questo modo una minoranza di votanti può ugualmente garantire una maggioranza di seggi, con effetti che si estendono non solo sulla Camera dei Rappresentanti di Washington, ma anche – importantissimo – nella formazione del Collegio elettorale cui spetta decidere la corsa alla Presidenza del paese.


Queste tecniche non sono nuove, e non sono monopolio di un solo partito, ma sono oggi rese micidiali dalla disponibilità di strumenti di analisi demoscopica molto più precisi che nel passato. Un esempio di questi mesi: si valuta che il gerrymandering di quest’anno trasferirà il prossimo novembre cinque seggi ai Repubblicani nella Camera dei Rappresentanti, togliendoli ai Democratici, e potrà bastare per rovesciarne il controllo, se i Democratici non sapranno altrimenti allargare i propri consensi.


Insomma questo novembre non è ancora finito, ma abbiamo già ipotecato il prossimo: i resti del tradizionale tacchino del Thanksgiving, il Giorno del Ringraziamento, non sono ancora nella pattumiera, e già si guarda ad un orizzonte procelloso.


Franklin

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