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Vigilia elettorale in tutta la Francia

Lettera da Parigi


Domani e la prossima domenica 27 giugno tutta la Francia è chiamata alle urne per il primo e il secondo turno delle regionali, un voto che prefigurerà la definizione di futuri schieramenti in vista delle presidenziali.

Il complesso sistema elettorale prevede, a meno del conseguimento fin dal 20 giugno sera di maggioranze al 50% più uno (improbabili ovunque), l’accesso di tutti i candidati e i partiti che abbiano conseguito almeno il 10% dei suffragi, ad un ballottaggio successivo a una settimana di distanza.

Uno spazio temporale esiguo, in cui dovranno decidersi possibili alleanze o desistenze per favorire l’affermazione di uno degli schieramenti, secondo apparentamenti, rituali e calcoli tattici propri alla “politique politicienne”, con una impronta ancora prevalentemente ideologica ed il ricorso pertinace alla contrapposizione astratta fra destra e sinistra. L’operazione è ovviamente più complessa nel caso di confronti tri/quadrangolari, rispetto ai più classici confronti a due, che erano la norma all’epoca del bipartitismo di Governo.

Al di là dello specifico impatto locale (di per sé non irrilevante) le aspettative della pubblica opinione e dei commentatori sono soprattutto concentrate sulle ripercussioni che il responso delle urne avrà per il prosieguo della campagna presidenziale. E questo sia per i posizionamenti successivi dei partiti tradizionali e dei movimenti politici, sia per la strategia che l’Eliseo intenderà adottare, a partire dalla decisione di Emmanuel Macron di portarsi candidato alla rielezione, per ora desumibile solo dal crescente attivismo del Presidente. Si aspetta poi col fiato sospeso la dimensione del successo complessivo della destra (avanti nei sondaggi in tutte le principali regioni) e il conseguente orientamento rispetto agli equilibri – vecchi o nuovi - che si configureranno nel rapporto con l’ex Fronte Nazionale di Marine Le Pen. Si va consumando una inedita, laboriosa metamorfosi dell’ormai consunto “tormentone” fra ostracismo e ravvicinamento all’ex Fronte Nazionale; e questo soprattutto nel disorientato mondo conservatore che lo vive, spesso platealmente, in modo lacerante.

Alcuni dei dati pubblicati – con particolare prudenza – da miriadi di sondaggi dell’ultim’ora meritano di venir anticipati, perché si fondano su credibili rilevazioni e rispecchiano l’umore complessivo del Paese. Una Francia divisa fra il sollievo dell’allentamento delle misure sanitarie, il prevalente favore che circonda il Piano di rilancio economico sociale e, di contro, il clima di disagio e di frontale antagonismo, ben simboleggiato da continue risse verbali e fisiche fra campi avversi.

Né i media ci risparmiano di ora in ora la cronaca puntuale di ripetute aggressioni e lanci di farina, di cui sono vittime trasversalmente tutti i principali leaders.

Si conferma anzitutto la tendenza generale del Paese a privilegiare la Destra: nel campo post-gollista, i “governatori” uscenti, emanazione del partito “les Républicains” (per esempio l’ex Segretario Laurent Wauquiez a Lione) o con esso apparentati (come i due potenziali candidati presidenziali Xavier Bertrand e Valérie Pécresse) si avviano ad una probabile rielezione, alla guida rispettivamente di Rhone-Alpes, degli Hauts de France e dell’Ile de France.

Nel comparto radicale del lepenismo, si mira (e non senza speranze concrete) alla conquista di uno o più consigli regionali: un risultato che sancirebbe il riconoscimento di un nuovo passo in avanti, tale da consentire a Marine Le Pen di scuotersi di dosso l’ormai nocumentale nomea dell’eterna sconfitta; ma soprattutto darebbe ulteriore fiato alle nuove tendenze del gollismo ad avvicinarsi (pericolosamente) alla destra estrema, cedendo fra l’altro alle lusinghe di una ipotetica partecipazione attiva al Governo del Paese.

Marine Le Pen non perde infatti occasione di annunciare che – in caso di vittoria alle presidenziali – farebbe ricorso ad un Governo di coalizione, con Ministri (e forse lo stesso Primo Ministro) prescelti nell’area della destra classica.

A fronte di questo elemento, che appare consolidato, si ergono due convitati di pietra, la cui incombente interferenza con il risultato finale è data anch’essa per acquisita.

Da un lato, il fantasma dell’Unità della Sinistra con l’irriconciliabile frammentazione in almeno tre tronconi (i socialisti, i Verdi e gli ultra-radicali della France Insoumise, alleati solo con quel che resta del Partito Comunista). E, dall’altro, l’incognita dell’astensione che tutti danno in netta se non irresistibile ascesa, rispetto ad una affluenza di per sé già piuttosto esigua, specie nel caso di elezioni amministrative.

Se per le comunali l’elettorato è interessato al voto che riguarda questioni della vita di tutti i giorni, lo stesso macchinoso rinnovo delle Regioni, di cui a malapena sono chiare a molti cittadini il perimetro delle competenze, gli spazi autonomi di azione e quindi in fondo l’utilità, finisce con l’allontanare molti dall’idea stessa di recarsi alle urne. Quelli che lo fanno, seguono più pedissequamente gli ordini di scuderia dei partiti, con un occhio rivolto piuttosto al dibattito politico nazionale e con una sensibilità acuita (se non distorta) dal clima generale di contrapposizione e di contestazione, venato di un inabituale ricorso alla violenza e alla semplificazione.

Paradossalmente - e se ne sono doluti gli stessi capilista regionali – a fare la differenza potrebbe essere stavolta - più del “campanile” e dei peculiari interessi del territorio - l’“enjeu” nazionale ed il discrimine fra consensi e dissensi attorno al primo consuntivo della gestione sanitaria ed economica dell’emergenza. Non a caso le misure decise da ultimo dal Governo per l’allentamento del rigore (abolizione delle mascherine all’aperto e del coprifuoco), salutate dal plauso generale, sono state oggetto di strali anche acuminati dell’opposizione, persino in Parlamento, con aperte accuse di sfacciata demagogia preelettorale.

Comunque sia, l’astensionismo sarà uno dei protagonisti della giornata di domenica e le sue effettive dimensioni numeriche verranno attentamente analizzate, soprattutto da quei polemisti che, a torto o a ragione, vi ravvisano una insidiosa patologia della democrazia, tale da minarne le radici. Non siamo lontani dalla preoccupazione principale, illustrata acutamente da Franklin (nella sua corrispondenza da Washington per Il Commento Politico), con riferimento al dopo-Trump e alla sfida di Biden negli Stati Uniti: il contenimento della pressione populista e sovranista è ben lungi dall’essersi trasformato, anche in Francia, in una vittoria duratura, e uno sfondamento del Fronte Nazionale, condito da un astensionismo record, ne farebbe riemergere la virulenta carica disgregativa.

Se non fosse per qualche incursione nel campo sportivo, per magnificare le performances dei Bleus, grandi favoriti del campionato europeo di calcio, la concentrazione quasi ossessiva dei media sugli ultimi fuochi della campagna e sull’avvio della terza tappa del periplo francese del Presidente finisce coll’offuscare ogni altro tema, fino a trattare con lacunosa svogliatezza l’intensa agenda internazionale che ha segnato questa settimana, fra il Vertice G7 in Cornovaglia, quello Nato a Bruxelles e l’incontro bilaterale Biden-Putin a Ginevra.

Quasi che dei primi due appuntamenti non fosse stato impegnato protagonista il Presidente Macron e che gli argomenti su cui si è soffermato nelle rispettive conferenze stampa non meritassero quell’attenzione che i sostanziosi spunti innovativi – dall’ambiente al commercio internazionale – sono, almeno sulla carta, suscettibili di comportare per il futuro della Francia.

All’agenda di sostanza sembrano invece volersi prevalentemente richiamare quelli che potrebbero diventare nelle prossime settimane gli “alleati” esterni più credibili ed autorevoli di Macron, in nome dell’“en meme temps”, cioè del contemperamento di programmi e idee di destra e di sinistra.

Non è passata inosservata la cerimonia, svoltasi senza fronzoli e in una intimità quasi-familiare pur nella formale cornice dell’Eliseo, che ha elevato al Grand’ufficialato della Legion d’Onore l’ex Primo Ministro Edouard Philippe. È stata letta come una conferma del ruolo che questo moderato e brillante esponente del neo-gollismo centrista, forte di una alta quota di popolarità personale, potrà giocare nella campagna, non in antagonismo con il suo antico “patron” ma a suo sostegno con funzioni di raccordo con l’elettorato conservatore.

Altrettanta curiosità ha suscitato l’annuncio dell’attuale Primo Presidente della Corte dei Conti Moscovici (ex commissario europeo e ministro socialista dell’Economia) che ha voluto rassicurare la pubblica opinione sulla “tolleranza” tecnico-contabile con la quale verrà monitorato il debito pubblico alla prova del “quoi qu’il en coute” di qui…al 2023, quasi a garantire respiro e credibilità alla calcolata flessibilità sul debito che ispira la linea dell’attuale Amministrazione.

Sulle dichiarazioni di Moscovici è tornato Bruno Le Maire, attuale titolare del Tesoro e candidato alle primarie presidenziali della destra moderata nel 2017, con l’esplicito auspicio che il Presidente uscente torni a presentarsi candidato, assicurandogli nuovamente il suo indefettibile appoggio.


l’Abate Galiani


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