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A cosa mira il Piano di Biden

Lettera da Washington


Il grande piano dell’amministrazione Biden per il rilancio dell’economia americana è ancora arenato in Congresso dove i Democratici mancano della forza necessaria per imporlo agli oppositori, tra cui figurano i conservatori, ma anche i dissidenti del proprio partito.

Trascurando l’opposizione pavloviana dei Repubblicani per qualsiasi cosa venga da una presidenza Democratica, la critica di entrambi è concorde sulla smisurata entità del programma, 3.5 trilioni dollari, che legittima timori e aspettative dei due schieramenti.

A questa preoccupazione se ne aggiunge una seconda, che riguarda il meccanismo finanziario proposto per farvi fronte: un serio ritocco del codice fiscale del paese, poiché buona parte del programma sarà coperto da una fiscalità più severa nei riguardi dei redditi medio-alti e oltre, colpendo un numero non indifferente di americani e non solo i Paperoni della finanza.

Infine, c’è un terzo aspetto, meno appariscente ma in realtà centrale nel piano Biden, cioè il potenziale di trasformazione che esso scatena per la società americana; il Presidente non considera il piano un provvedimento di congiuntura ma vede in esso il lascito della sua lunga carriera politica, il progetto che definirà la sua presidenza, e l’idea epocale destinata a imprimere una impronta nella nazione per un lungo periodo, cambiandone i dati sociali in senso più equilibrato e più aperto.

Non si tratta semplicemente di spostare risorse. Si intravede, piuttosto, l’intenzione di riconfigurare il modello della nazione, spingendolo più vicino alla visione di Franklin Roosevelt e ben distante da quello di Ronald Reagan, che ha dominato negli ultimi quarant’anni. Esiste un vero divario tra i due partiti tradizionali circa la concezione dello Stato e la sfera di ciò che ci si deve attendere da esso, e non sono solo sfumature. Alcuni degli avanzamenti sociali di Roosevelt sono tuttora considerati tra i pilastri della nazione, ma l’abbrivio si è perso da tempo e gli elettori Democratici sono oggi chiaramente sensibili all’appello di una sinistra più spinta. L’epiteto “socialista”, che era una sentenza di morte politica nei decenni trascorsi, ora non scuote nessuno.

Biden è stato eletto contro Trump non solo dai Democratici convinti, ma anche da gran parte dei cittadini meno privilegiati e senza partito, che temono di essere respinti da un “sogno americano” sempre più evanescente, rimanendo esclusi dai benefici della società organizzata, dall’educazione alla sanità. Questa parte meno privilegiata dell’elettorato annaspa nella corrente di un modello nazionale che premia i massimi produttori di ricchezza, ma trascura coloro che questa ricchezza rendono possibile col lavoro sottopagato. Estendere la missione dello Stato a facilitare l’ascesa di questa parte del Paese, includendola nel generale progetto di rilancio dell’economia, sembra essere il progetto che Biden vuole realizzare. Ma questo comporta la necessità di rivedere la fiscalità, mettendola al servizio degli obiettivi e distogliendola dal dogma della “trickle down economics”.

Per quarant’anni dopo Reagan, nessun Presidente - compresi Clinton e Obama - è riuscito ad incidere realmente sulla finanza federale per riequilibrare il campo di gioco. È per questo che oggi esistono grandissime imprese (ed è magari un bene), che accumulano straordinari profitti, (e anche questo è parte del sistema), ma che si pongono - assieme ai loro investitori - sostanzialmente al riparo dalla fiscalità governativa. Il prezzo che l’America paga non è solo quello di una sempre minore equità, ma la limitazione per un gran numero di cittadini di una prospettiva di crescita, di miglioramento, di arricchimento culturale e di sicurezza: troppi sono esclusi dalla possibilità di contribuire alla grandezza del paese ad un livello superiore di quello del sudore della fronte.

È in tempi di crisi che i nodi vengono al pettine. Durante questa pandemia, il reddito medio negli USA si è attestato sui 56.000 dollari, ma un Afro-americano su cinque, un Latino-americano su sei, e nell’insieme un americano su nove, si è trovato nel 2020 ufficialmente in stato di povertà.

In questa situazione, un partito progressista non può ignorare l’aspettativa della cittadinanza a tornare ad essere un paese all’altezza della propria tradizione di affrontare ogni crisi con tutto il suo potenziale e tutte le sue risorse. Il reddito fiscale cumulativamente apporta 3.5 trilioni l’anno al governo federale, guarda caso l’esatto ammontare del piano Biden.

Il Presidente sembra sentire l’urgenza di rimediare alla passività di lunghi decenni di governo dinanzi all’incongruenza della fiscalità federale, che offre troppe possibilità di evasione ai redditi di capitale più elevati e nega le risorse per realizzare il potenziale del paese.

Le potenzialità innovative del piano Biden sono intollerabili per la parte conservatrice del paese, che saprà bene orchestrare ogni campagna avversa. Per questo Biden non vorrà accontentarsi di una vittoria stentata. Purtroppo occorre però registrare che il primo anno di governo non ha brillato per sonori successi, martoriato com’è stato dalla insistente pandemia, dall’opposizione senza quartiere in Congresso, dallo spettacolo dell’incompetenza in Afghanistan, e infine da faux pas con importanti e benevoli alleati come la Francia. Si è disperso molto del capitale politico di cui Biden disponeva nel novembre 2020 sull’onda di una elezione vista da tutti come liberatoria.

Si può immaginare che la determinazione della Casa Bianca a strappare un successo su questo progetto sia solida; resta da vedere se sarà anche fortunata. A prima vista, i margini sono risicati.


Franklin

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