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Aborto, la sentenza shock della Corte Suprema

Lettera da Washington


Alla vigilia delle primarie in alcuni Stati americani, il primo segnale della stagione elettorale che prelude alle elezioni generali della Camera e di un terzo del Senato nel prossimo novembre, è scoppiata una bomba politica. La Corte Suprema, a maggioranza conservatrice e da poco rinforzata con un nuovo giudice che sostituirà uno dei tre “liberali” che restavano, si accinge a rescindere la sua precedente giurisprudenza in materia di aborto che aveva legittimato dal 1973 l’interruzione di gravidanza come parte dei diritti dei cittadini.

Non c’è stato alcun annuncio ufficiale: la notizia è esplosa con una indiscrezione, la diffusione di una copia del progetto di sentenza redatto dal Giudice Alito, a nome della maggioranza dei nove giudici che in sostanza nega l’esistenza di un diritto all’aborto, in quanto non contemplato nella Costituzione; non nega peraltro che l’aborto che possa esistere, Stato per Stato, laddove la legislazione locale esplicitamente lo contempli.

Il parere espresso da Alito, uno dei Giudici conservatori della Corte, elimina così uno dei capisaldi delle rivendicazioni femminili americane e revoca cinquant’anni di pratica che hanno profondamente cambiato la società americana, con positivi effetti non previsti (tra cui cito solo il crollo della criminalità cittadina, un effetto imprevisto ma gradito della maternità responsabile e dell’educazione in famiglia che questa ha reso possibile).

Fino al 1973, in 30 Stati l’aborto era illegale in tutte le sue forme; in altri 13, era permesso in casi specifici definiti dalla legge. Restavano solo sette Stati in cui era permesso di diritto, finché un caso giudiziario famoso, noto come “Roe contro Wade” (il primo è un nome convenzionale, per designare una donna la cui identità viene protetta, e Wade era il magistrato del Texas cui competeva l’applicazione del divieto di aborto). La sentenza “Roe v. Wade”, che proclamava l’esistenza di un diritto all’aborto implicito nella Costituzione, ha avallato mezzo secolo di femminismo americano nella rivendicazione del diritto di disporre del proprio corpo, ed è ora in effetti rovesciata, anche se il verdetto della Corte non è stato ancora ufficializzato – come è previsto tra alcuni mesi.


L’importanza della sentenza della Corte è di per sé immensa: non capita di frequente che uno dei punti cruciali della società americana, la libertà di decisione dei singoli dinanzi allo Stato, sia soggetto a manipolazioni, specialmente se queste sono suscettibili di riflettere una angolazione intellettuale precisa, una scelta politica. È un gigantesco sasso nello stagno, che interviene nelle settimane iniziali di un anno elettorale, ed è frutto di una indiscrezione, certamente da parte di qualcuno all’interno della Corte stessa, a favore di “Politico”, un noto organo di stampa specializzato. Ognuno di questi aspetti è una aggravante e porterà conseguenze probabilmente anche all’interno della Corte stessa, ma anzitutto tra gli americani - e le americane - che cominciano a pensare al voto di novembre ma che stanno già votando nelle primarie dei partiti, nonché in alcune elezioni suppletive. Di per sé, in un Congresso diviso sostanzialmente a metà tra le forze politiche, basta poco per sovvertire in un senso o nell’altro i precari equilibri esistenti che condizionano la capacità di governo di Biden e della sua squadra.

Quale sarà allora la reazione dei cittadini, messi dinanzi al fatto compiuto di una decisione della Corte che annulla cinquant’anni di giurisprudenza, a loro volta frutto di decenni di violenta polemica e aperta lotta in nome dei diritti fondamentali, soprattutto quando la Costituzione non è esplicita?


È facile prevedere che la mobilitazione degli anni ’70 - soprattutto femminile, ma non solo - tornerà a riproporsi con tutta la virulenza di allora, amplificata dal senso di rapina sofferta in omaggio a una dottrina giuridica che prevale su un’altra. Lo confermano i cortei formatisi nelle città in poche ore dall’annuncio, in serata, sulle televisioni di tutta l’America. Questi cortei, che continuano, fanno presagire che questo sia solo l’inizio, e che per un momento l’Ucraina è improvvisamente passata in seconda linea. Non mancherà l’occasione di occuparsene nei prossimi mesi, ma al momento le città sono in fermento sul fronte dei diritti.


Tutti hanno compreso che la motivazione della sentenza, che nega la possibilità di legittimare a livello nazionale diritti che non siano già almeno menzionati nella Costituzione, se non attraverso il meccanismo di un emendamento costituzionale, distrugge di un solo colpo la grande espansione dei diritti personali che ha avuto luogo in questi decenni: cinquanta anni di diritti civili che comprendono tutta la gamma delle protezioni a favore della diversità di genere, e così via. Nulla di questa pluridecennale costruzione è più al sicuro, e la reazione potrà essere tremenda. Resterà agli Stati la prerogativa di legiferare per conto proprio, ristabilendo a livello statale quei diritti che la Corte Suprema ora rinnega; ma sarà una battaglia tutta nuova, e per molti americani la possibilità di affermare la propria identità dipenderà dallo Stato di residenza.


Cosa accadrà? Dobbiamo aspettarci che la mobilitazione delle donne americane, e di molti tra i loro amici di ogni altro genere, avrà immediate conseguenze politiche. La coloritura conservatrice della decisione della Corte, anche se il testo della motivazione non è definitivo e a questo punto certamente sarà ritoccato prima di diventare ufficiale, è definitiva nell’esprimere la decisione della maggioranza, e non vi sarà retromarcia. La sentenza riflette il raggiungimento di un obiettivo politico a lungo perseguito dalla destra americana, compresa naturalmente una parte dell’elettorato femminile conservatore, che non cambierà opinione: ma l’effetto sul pubblico femminile, quello non acquisito alla parte retrograda, potrebbe essere devastante per i conservatori americani, sebbene abbiano di fronte un governo Democratico politicamente debole e non entusiasmante neanche per i sostenitori.


Il provvedimento della Corte è un colpo di frusta: se le donne americane vogliono conservare le conquiste di questo secolo, dovranno uscire allo scoperto e andare a votare in massa, Congresso, Stati, Presidenza e mirare a creare una rappresentanza politica non solo di partito ma anche di genere.

Questa indiscrezione della Corte potrebbe piantare il germe della sconfitta in un partito Repubblicano che si sente forte per l’apporto di Trump e la percepita debolezza di Biden, e che non ha una solida base nel voto femminile in molti degli Stati. È certo curioso constatare che le speranze Democratiche di conservare la maggioranza riposino sulla discesa in campo di un nugolo di donne infuriate.

Eppure sarebbe interessante, il prossimo novembre, trovarsi con un Congresso popolato da tante donne, probabilmente giovani, capaci di rabbia contro gli avversari. Sarebbero sicuramente pronte a sostenere un radicalismo di cui abbiamo visto i primi assaggi con il piccolo gruppo già eletto due anni fa, noto come “la squadra”, che ha il dono di mandare su tutte le furie gli anziani, più pomposi legislatori nella parte conservatrice dell’aula.


Franklin

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