Lettera da Washington
Il 1° giugno di cent’anni fa, a Tulsa, nel lontano Oklahoma, esisteva una fiorente comunità di colore formata da veterani della guerra mondiale, professionisti e commercianti che in un quartiere si erano costruiti con successo una vita: banche, alberghi negozi e uffici ne testimoniavano. Finché quel 1° giugno scoppiò la sommossa dei concittadini bianchi, alla ricerca di un colpevole per un omicidio che aveva sollevato l’indignazione di tutti. Lo trovarono, senza esitare, nell’intera comunità di colore della città. Fu un vero pogrom: il quartiere venne dato alle fiamme, un numero ignoto di persone persero la vita (solo ora, cent’anni dopo, si stanno scavando le fosse comuni in cui furono seppelliti - cioè nascosti - i morti).
Per tutto questo tempo, ufficialmente, nulla era avvenuto fuori dall’ordinario, nulla che potesse turbare le coscienze. Quest’anno Biden ha voluto recarsi a Tulsa per commemorare l’evento. Il Presidente è al suo meglio quando ha occasione di attingere ai vasti serbatoi di empatia di cui dispone nei confronti dei sofferenti e degli esclusi, e infatti anche questa volta ha pronunciato un discorso all’altezza. Si dice che gli irlandesi abbiano per natura una vocazione oratoria; un altro irlandese d’America, Robert Kennedy, fu altrettanto eloquente (ma molto più conciso) nell’annunciare al paese l’assassinio di Martin Luther King, evocando, con Eschilo, come “anche nel sonno, il dolore che non dimentica cade goccia a goccia sul nostro cuore, finché nella nostra disperazione, senza la nostra volontà, per grazia di Dio giunge la saggezza”.
C’è voluto un secolo per questo silenzioso stillicidio. Biden è il primo presidente americano che è andato a Tulsa per il centenario di un episodio che ci si era tanto sforzati di dimenticare per sempre. È stato un atto di umanità, e anche di riparazione. Ma perché adesso, finalmente?
Una spiegazione è che siamo vivendo un momento difficile per la democrazia americana, che ha affrontato e superato altre crisi e ora ne ha davanti una nuova. I diritti delle minoranze non sono mai stati tanto sotto attacco quanto oggi, nemmeno quando gli stessi diritti dovevano ancora essere pienamente riconosciuti.
È stata varcata la soglia che divide l’offesa ai singoli dall'offesa alla radice stessa dei principi fondatori della nazione e alle istituzioni che li traducono in realtà.
Sono passati quasi sette mesi dal voto del novembre scorso, il cui esito è risultato contrario alle aspirazioni del governo di allora. Per quanto si sia tentato di sovvertire la sua conclusione (tutti abbiamo assistito dai nostri schermi televisivi a settimane di questa tragicommedia) la repubblica ha retto e la democrazia ha ripreso il suo corso. La democrazia contiene la libertà di manifestare opinioni diverse, ma - come dice uno slogan in voga da queste parti - anche se ognuno ha diritto a opinioni diverse, nessuno ha diritto a fatti diversi. E i fatti indicano che le istituzioni create due secoli fa per mettere in atto questa democrazia hanno funzionato e oggi Biden è Presidente ed esercita la sua carica perché ne è stato investito in esecuzione delle regole democratiche.
Non dovrebbe sorprendere, perciò, che l’attenzione degli oppositori si sia spostata sulle regole stesse. Chi sostiene oggi Trump nel mondo politico americano (non la “base” dei fedelissimi ultra, sempre sulla soglia della rivolta armata, ma gli stessi politici di professione) ritiene che per vincere su un elettorato che tende a sinistra e potrebbe relegare i conservatori ad una minoranza strutturale, questi ultimi debbano puntare a rendere difficile l’esercizio del voto: non essendo più possibile negare con noncuranza il voto a classi intere di cittadini, si conta sulla creazione di difficoltà o restrizioni non assolute, ma tali da scoraggiare l’esercizio del diritto al voto. Si conta certamente sull’effetto sproporzionato che gli ostacoli avranno sulle classi meno privilegiate, che sono naturalmente le più probabili fornitrici di voti democratici, e sulle minoranze che ne fanno parte. Questo può fare la differenza.
In effetti, il 2020 ha confermato il ruolo decisivo che il voto afroamericano, nel complesso sistema elettorale americano, ha avuto nel portare Biden alla Casa Bianca. E questo non è sfuggito né a Biden, né ai suoi avversari.
Prendendo di mira questi elettori, i conservatori hanno compiuto una scelta che non si può ridurre semplicemente alla nostalgia per Trump: l’ex Presidente finirà pubblicamente sulla pila dei rifiuti quando il suo nome perderà definitivamente il consenso dei conservatori, ed è sulla buona strada.
La scelta che i conservatori hanno compiuto è ben più temibile, ed è quella di manomettere la macchina che gestirà le future elezioni. Ricordiamo che già l’anno prossimo, se non prima, si giocherà l’avvenire dell’amministrazione Biden, decidendo nuovamente sulla maggioranza congressuale che dovrebbe attuarne la politica. Lo strumento esiste: Biden ha vinto strappando il voto di Stati storicamente conservatori grazie al voto delle minoranze, soprattutto delle donne afro-americane, e i conservatori che non pensano di riguadagnare quel voto stanno studiando come ostacolarlo d’ora in poi. Di fatto, non occorre avere il potere a Washington: basta averlo nelle legislature dei vari Stati dove si persegue questo obiettivo, poiché la Costituzione non ha riservato questi poteri al governo federale. Gli Stati Uniti sono, appunto, cinquanta Stati che si sono uniti, e ciascuno può usare i poteri non trasferiti a Washington per differenziarsi dal resto della nazione. Gli Stati hanno libertà di decidere come attuare il voto:
se uno Stato vuole facilitare o scoraggiare la partecipazione dei cittadini, può fissare regole che danno ampia possibilità per votare in anticipo o per corrispondenza, o può al contrario privare del diritto del voto chi sconta o ha scontato una pena carceraria; può istituire numerosi seggi elettorali per tutto il territorio o, invece, ridurne il numero e concentrarli nelle zone dove il partito conta di mietere consensi; può incoraggiare i volontari a offrire assistenza a cittadini che hanno difficoltà a raggiungere i seggi, o invece proibire il loro accesso; potrebbe anche stabilire che l’iscrizione sulle liste elettorali sia disposta “ex officio” invece che su richiesta dei singoli cittadini. Potrebbe perfino decidere che il martedì elettorale, che è iscritto nella Costituzione, sia dichiarato giorno festivo invece che lavorativo (così chi fa la fila per ore per votare non perde una giornata di stipendio, problema che non affligge le classi più abbienti). Tutto ciò fa parte della battaglia per il voto popolare, dove genere e razza, nonostante tutto, sono ancora una discriminante.
Infine, proseguono in Arizona i conteggi (un’altra volta) dei voti di novembre, nelle località in cui i Democratici hanno vinto. Non credo che ci si aspetti davvero un rovesciamento del voto elettorale; il vero obiettivo può essere un ulteriore indebolimento della fiducia popolare nel processo elettorale nel suo insieme, foriero di una spinta per una riforma da effettuarsi nel senso del “rigore”, che in questo caso - come nel gioco del calcio - sarebbe una punizione decisiva contro chi la subisce.
Probabilmente poco di quanto ho descritto sopra è anticostituzionale nella meccanica, ma lo è, e profondamente, nelle implicazioni. Poco può fare Washington dati i poteri sovrani degli Stati in materia; meno ancora tenendo conto della precarietà della maggioranza parlamentare di Biden. Resta l’opzione di consolidare il consenso dei cittadini e difenderlo dalla possibilità dell’opposizione di usare male arti per rovesciarlo nelle future occasioni elettorali.
La sincerità di Biden che, dopo cent’anni, va a Tulsa a portare il cordoglio dell’America ai discendenti e ai pochi superstiti dell’accaduto, è indubbia. Ma mentre appare come un atto dovuto da tempo per la riparazione dei torti inflitti, è al tempo stesso il riconoscimento del sostegno offerto dall’elettorato afro-americano, che ha fatto sì che oggi Trump non risieda più a Washington. Ed è certo un sommesso invito a proiettare questa alleanza nel futuro, quando sarà ancora più - e non meno - decisiva.
Franklin
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