Lettera da Washington
La Cornovaglia è ormai lontana nella scia di Air Force One, con tappe successive a Bruxelles e Ginevra. Tra i souvenirs raccolti dal suo autorevole passeggero vi era anche il senso di un mandato per gli incontri successivi, cominciando da Evere, nella periferia di Bruxelles, per completare l’intesa in famiglia con la NATO, e la tappa successiva per affrontare il primo degli interlocutori difficili che l’attendevano.
Tutti i vertici del G7, per definizione e con una complice strizzatina d’occhio, sono un successo. L’accordo è già delineato prima di mandare gli inviti e scomodare tanti illustri politici, ed è verificato dai laboriosi sherpa prima degli incontri, poi infine orchestrato con precisione sotto la regia del leader ospitante. Il campo di gioco è delimitato, le regole sono chiare, raramente si assiste a strappi o deviazioni. Il prodotto è sempre un’intesa, più che un accordo, ma basta a ciascuno dei partecipanti per l’uso che vorrà farne.
Anche stavolta gli ospitanti saranno stati soddisfatti, anche se al di fuori dell’esame critico lasciato ai “think tanks” e ai media, mancano in realtà organi istituzionali per monitorare le volenterose dichiarazioni circa il futuro, e verificare cosa ne resta dopo qualche mese. È frequente la critica che il G7 spesso addita obiettivi condivisibili, ma che sia debole nel compiere il percorso per raggiungerli. Eppure l’incontro non è tempo perso. I leader delle grandi democrazie non possono non ricavare conclusioni quando si incontrano faccia a faccia in un ambiente di formale informalità, dove cognomi e titoli sono sconsigliati, e ne escono con una percezione più accurata di come stia girando il pianeta.
Così Biden ha potuto proseguire poi per la NATO e dopo ancora incontrare Putin con la consapevolezza precisa di quanto e quale sostegno può accumulare tra i suoi compagni di squadra, e valutare anche dove si trovino le più pericolose mine vaganti.
E questo è importante perché le nazioni delle democrazie attraversano un punto di inflessione. Sono accadute di recente cose inaudite: il concetto di democrazia è stato scosso all’interno del suo baluardo, mentre l’autorità del medesimo non è più univoca. C’è la sensazione che si sia perso il senso di un flusso in continuo progresso, magari lento ma univoco, capace di diffondersi come una marea senza fine.
Messa alla prova, la governance democratica ha dovuto combattere più duramente di quanto ci si aspettasse per mantenere una rotta coerente e siamo ancora a metà del guado. In America, il popolo di Trump esiste ancora, così come esisteva prima dell’ex presidente, ed è ben lontano dal deporre le armi. Anche nel senso letterale. Non sappiamo ancora se la presidenza Biden saprà farsi strada mantenendo la rotta. Per ora, Biden - nonostante i sondaggi di opinione favorevoli - fatica in patria a concretare la sua autorità per svolgere il suo ambizioso programma, ed è impegnato a ricondurre i torrenti del populismo, col loro tumulto, nel vasto alveo della democrazia americana.
Parte di questo sforzo richiede di fare quello che fanno i presidenti americani: mettersi alla guida dei paesi associati nell’impresa. Gli americani si aspettano non solo che il presidente governi, ma anche che eserciti questa prerogativa di leadership conquistata settant’anni fa. Il momento attuale, con le sue incertezze di ogni genere, politiche, militari, economiche e sanitarie, richiede di issare la bandiera e andare anche ad affrontare avversari/rivali difficili come Mosca e Pechino. Sarebbero guai per un presidente che a casa sua apparisse debole verso l’esterno; e inversamente, se c’è una molla che scatta d’istinto per tutti gli americani, qualunque sia il colore della loro politica o della loro pelle, è il patriottismo. Non si sfidano gli USA, per quanto gli stessi cittadini li critichino aspramente, tanto più quanto più sono democratici.
Oggi Pechino fa insidiosamente sul serio e in un batter d’occhio la Cina è tornata nel mirino.
Ai tempi di Gorbachev, in Europa si sarebbe voluto tendere una pertica al nuovo capo della Russia (tra non poche controversie), contenti di assistere alla fine dell’URSS e ansiosi, o illusi, di cogliere il momento per aiutarla ad evolvere. l’America di Bush invece si irrigidì: per la Cina braccia aperte, ma la Russia, anche traballante, restava senza scampo il principale pericolo strategico.
A Evere si è conferito ora lo stesso diploma ex-aequo anche alla Cina. È un tardivo riconoscimento che ripropone antichi quesiti.
C’è stato un tempo in cui la freddezza della Cina nei confronti dell’URSS causava sollievo; se sulle rive dell’Ussuri tuonavano le artiglierie, sulle sponde del Potomac (e, onestamente, anche del Tevere) se ne prendeva atto senza troppo rincrescimento. L’idea di una Cina che si costruiva una forza per arginare non il comunismo, ma almeno la Russia, andava bene; ma non c’era consapevolezza su cosa sarebbe avvenuto nel lungo periodo.
Oggi quel “lungo periodo” è arrivato. Entrambi i paesi hanno estratto dall’esperienza della loro storia opzioni autoritarie di guida dei loro popoli. Come interagiranno le democrazie nei loro riguardi?
Biden a Ginevra ha incontrato Putin, non Xi Jinping. È un segnale, ed è una apertura, ma una fessura soltanto; il resto è nelle mani di Putin. I punti di contatto e di possibile attrito, o invece di riserbo, non mancano per intavolare un seguito, compreso nel Medio Oriente. Se a Ginevra si sono stabiliti effettivamente parametri per continuare a parlarsi, l’incontro sarà servito davvero. Meglio scambiare ambasciatori che scambiare missili.
Tuttavia, dove ci porterà questo scambio di vedute sul lago Lemano resta, da ultimo, nebuloso. Certo, se più in là nel tempo all’era dell’autocrazia di Putin succedesse una fase meno imperiale, anche se altrettanto patriottica, potrebbe essere interessante vedere da che parte salterebbe la Russia in relazione alla perdurante ascesa della Repubblica Popolare Cinese.
La sfida al modello civile occidentale è una opzione oramai per i cinesi, ma non è più realistica per i russi. La Russia raccoglie una popolazione su per giù pari al 10% della Cina, con un Prodotto interno lordo dell’ordine di quello dell’Italia, e la capacità tecnologica di livello mondiale che vantava decenni or sono non è più necessariamente superiore a quella della Cina; difficile pensare che Mosca si adatterebbe a essere un “junior partner” di Pechino. Chissà allora se ne risulterebbe una Russia più compatibile con l’Occidente, e magari se ne potrebbe forse ricavare una disponibilità maggiore che per il passato: quella pertica tesa che a Gorbachev non fu offerta.
Se l’ascesa della Cina spingesse per reazione la Russia più vicino al pianeta della democrazia, sarebbe la fine di un lungo percorso, che dagli Zar è proseguito attraverso gli autocrati sovietici fino a quelli attuali.
Garcia Marquez ha consacrato una definizione per questa traiettoria di maturazione di un popolo e di una nazione: Cent’anni di solitudine.
Per la Russia sono stati perfino di più.
Franklin
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