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Ciclone Biden sul GOP

Lettera da Washington


Dopo tre mesi di amministrazione Biden, il paese si sta assestando su una nuova normalità.

Intanto, col caffè del mattino non ci sono più gli abituali “tweets” inverecondi di Trump. Non che se ne senta la mancanza, ma certo faceva salire il ritmo cardiaco. Ora non c’è scusa, per mettere il sangue in circolazione si deve inforcare la cyclette e pedalare mezz’ora. Le notizie più grosse riguardano la stupefacente quantità di trilioni che servirà per attuare il programma del governo e la dura reazione del partito avverso.

Ma si dà il caso che al pubblico americano l’idea piaccia, e il rating di Biden è più o meno costante sul 54% (Trump non ha mai nemmeno sfiorato il 50%). Il perché non è un mistero. La pandemia, sommata all’erosione implacabile imposta dagli eccessi di decenni di libero commercio internazionale, aveva aggravato l’ansia dei molti americani che vedevano - giorno per giorno - ridursi l’orizzonte di credibile prosperità cui aspiravano: chiudevano le miniere di carbone, non per colpa dei Verdi, ma perché l’energia verde è competitiva; chiudevano fabbriche, non per colpa dei sindacati esosi, ma perché l’acciaio si faceva altrove più a buon prezzo, oppure altrove esistevano industrie più agili nel rispondere alle richieste del mercato, e così via. A questa America desolata Trump ha offerto attenzione e promesse; si è presentato come un personaggio meno alieno degli urbani cittadini delle grandi città dell’Est e del Pacifico, ha aggiunto una pennellata di picaresco, che non guasta, e intere regioni di questa America si sono riversate sul suo partito.

Uscire dalle valli degli Appalachiani o dalla “rust belt” per affrontare il mondo com’è diventato avrebbe richiesto quanto meno uno sforzo pubblico gigantesco per elevare e affinare il livello di educazione, ma non era questa l’ottica dei conservatori: lo Stato, ammoniva Reagan, non è la soluzione, lo Stato è il problema.

Oggi invece, con questa straordinaria mobilitazione di risorse in mano al governo federale, è invece nuovamente lo Stato a presentarsi come un protagonista; l’invisibile mano del mercato, sembra dire questo governo, ha avuto quarant’anni per manifestarsi, e non l’ha fatto. Chi è cresciuto nelle zone bombardate dalla globalizzazione e mitragliate dal progresso tecnologico concentrato altrove, per equipaggiarsi contro un destino di sussistenza poteva al massimo sperare di andare a un “community college”, una specie di istituto di avviamento, in media sui 10,000$ all’anno. Completare ulteriormente gli studi in un vero “college” per ottenere una laurea, il doppio. Non parliamo dei grandi atenei: Harvard e Columbia vanno sui 60,000 dollari annui, che con vitto e alloggio toccano gli 80,000. Il reddito medio in West Virginia è sui 25,000. Chi ci nasce, può reagire o lasciarsi trascinare dalla delusione. Il sogno americano appare e scompare, lasciando amarezza e risentimento.

Chi è prigioniero di questo scenario è vulnerabile alla demagogia, che il populismo trumpiano incarna perfettamente; ed è in queste regioni nel cuore del paese che mostra, ancor oggi, la sua presa.

Biden e l’uso dello Stato federale per risolvere i problemi strutturali delle zone dimenticate, oppure il populismo dei conservatori che giova a pochi, ma ancora attrae molti: i partiti politici sono divisi da questi due dogmi inconciliabili. O il bene della nazione è legato alla sua coesione e alla esistenza armoniosa di un popolo unito, come propongono i Democratici, o - come ritengono i Repubblicani - è legato alla inevitabile tensione sociale interna che, come in una batteria, genera energia proprio per la diversa carica dei due poli. Secondo gli uni, la nazione non può rinunciare a perseguire un benessere esteso ed accessibile a tutti perché ciò è inerente alla democrazia; secondo gli altri, l’esistenza di miseria ed emarginazione sarebbe, invece, inevitabile perché è ciò che spinge ai sacrifici necessari ad un popolo per eccellere. Ne consegue che chi ha e chi può non riconosce doveri nei confronti del resto; la sola sovrapposizione che resta allora tra le opposte ideologie è nel sublimare le proprie contrapposizioni in una mistica patriottica, poiché entrambe sottoscrivono alla presunzione di eccellenza che appartiene all’idea nazionale americana. Che questa filosofia possa scivolare pericolosamente verso le idee che echeggiavano in Europa prima della metà del secolo scorso non aggiunge nulla di rassicurante.

Su questo sfondo, ciò che è accaduto nelle scorse settimane con il lancio dei vari scaglioni del piano di Biden può avere l’effetto di rimescolare le carte in modo devastante per gli oppositori del governo. Non è solo la pioggia dei trilioni, è che Biden ha un orizzonte breve e sa che non avrà quartiere dai suoi avversari: perciò se occorre farà tutto coi soli voti democratici, senza perdere tempo per cercare una conciliazione. Una conseguenza è che, se l’iniezione di risorse avrà successo, sarà accreditata ai soli Democratici. Inoltre, la distribuzione di queste risorse potrebbe colmare l’handicap di cui soffrono le regioni trascurate, introducendo per gli ex-trumpiani la possibilità inedita di beneficiare di strumenti adatti a rompere l’assedio della miseria e della rassegnazione. Così la presa dei populisti sull’America profonda può sfumare, e con essa il sostegno al Grand Old Party (GOP). Oggi, quest’ultimo si sta raggruppando sempre più attorno a un dogma estremo, che esclude qualunque alternativa a Trump. Nessuno è al riparo dall’epurazione in corso; vecchie glorie, come l’ex-candidato alla Presidenza, Mitt Romney, sono emarginate, o come la coraggiosa figlia dell’ex vice Presidente Dick Cheney, che pure presiede il gruppo parlamentare repubblicano ma sarà probabilmente obbligata a dimettersi per aver accettato pubblicamente la legittimità dell’elezione di Biden. Il partito Repubblicano sembra aver compreso di non aver speranza senza Trump, ma ciò potrebbe significare che il vecchio GOP è ormai semplicemente estinto. Se Biden avrà successo nel suo mandato, carpendo a favore dei Democratici le stesse aree elettorali che avevano ampliato il bacino del GOP e ne avevano assicurato la competitività, il loro partito potrebbe essere ridotto su scala nazionale ad un ruolo di minoranza istituzionale.

Il fatto che il partito ancor oggi scommetta tutto sull’ex-Presidente, epurando chi non si conforma, sa di disperazione. Evidentemente Biden, un nonnino sorprendentemente dinamico, sta raccogliendo consensi nella nazione, forse anche proprio negli Stati “operai” che pure si erano gettati su Trump. Il suo successo, se si confermasse, potrebbe essere fatale al partito Repubblicano trumpiano com’è ora. È per questo motivo che - come già con Obama - la leadership parlamentare del GOP farà di tutto per nullificare qualunque cosa promani dalla Casa Bianca, nel tentativo di dipingere la politica del governo come un esperimento dilettantesco, frutto della sottomissione ai settori estremi della sinistra ideologica americana.

Non sarà una contesa leale; dato che costituzionalmente sono gli Stati a dettare le procedure elettorali, sfruttando il loro controllo dove le strutture locali sono Repubblicane, è già in corso una coordinata azione del GOP per rendere l’accesso alle urne il più scomodo e difficile possibile, con l’intenzione di scoraggiare gli elettori - implicitamente, si lascia all’apparato di produrre i numeri necessari per vincere sempre e comunque. Questa è anche una confessione di debolezza, perché chi cercherebbe di limitare il numero dei votanti se sapesse di avere una maggioranza popolare?


Franklin

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