Lettera da Washington
Nel mondo dei “checks and balances” la Corte Suprema ha un posto di prima fila, che non ha l’esatto equivalente in Europa.
Nella terna dei poteri descritta da Montesquieu, la Corte è il culmine del potere giudiziale. L’architettura della nazione americana, in cui confluiscono cinquanta Stati (e vari altri territori) incarna la tripartizione classica: i tre poteri sono ben identificati, i loro ruoli demarcati, e in più esiste la ripartizione dei ruoli tra Federazione e Stati. La coerenza di tutto ciò con il mandato costituzionale della nazione è l’obiettivo, e tutto si incrocia e converge nella Corte Suprema. Con un nome così la missione è evidente: in un paese federale, dove per progetto si accetta la differenza tra gli Stati, un paese creato da una generazione di illuministi, dove si è lasciata briglia sciolta alla umana passione di cambiare le cose che ci circondano, senza un arbitro finale severo ad affidabile vi sarebbe una eterna, confusa partita politica di rugby. La Corte è quell’arbitro, e come tale esige l’indipendenza dei magistrati che la compongono, nominati a vita, e l’indipendenza della Corte stessa nel suo insieme, illustrata dalla prerogativa di scegliere insindacabilmente, tra i 7000 casi che ogni anno le vengono sottoposti, i 150-200 da esaminare.
Questa posizione fa della Corte uno dei massimi poteri dell’Unione. È frequente incontrare nella cronaca politica citazioni di sentenze storiche, come “Roe vs. Wade” (liceità dell’aborto), oppure “U.S. vs Nixon” (obbligo di consegnare le registrazioni segrete della Casa Bianca). Unico rimedio contro una sentenza della Corte Suprema è un emendamento della Costituzione, processo politicamente arduo che richiede l’approvazione da parte di due terzi di ciascuna delle Camere, seguita dalla ratifica di tre quarti degli Stati.
Benché i singoli magistrati abbiano scrupolosa cura di non sposare posizioni politiche, nel tempo inevitabilmente emerge per ciascuno una fisionomia che ne descrive la filosofia, e determina una presunzione di preferenza per l’una o l’altra delle correnti politiche dominanti.
Si capisce allora come sia importante per un governo avere la copertura della Corte per la propria azione legislativa, o avvalersi della medesima per disciplinare gli Stati che esercitano la loro indipendente capacità legislativa in contrasto con il governo federale, per negare l’applicazione per esempio di riforme che localmente siano sgradite (è la storia dell’emancipazione). L’importanza di quanto sopra si avverte quando, come potrebbe accadere tra breve, un governo non ha una maggioranza parlamentare, o non ne ha una abbastanza salda da legiferare, e ricorre al potere del Presidente di emettere decreti come capo dell’esecutivo. Ciò chiama in causa facilmente l’estensione dei poteri presidenziali. Al contrario, l’opposizione può portare alla Corte provvedimenti normativi dell’esecutivo, cui è contraria, nella speranza di ottenere la loro invalidazione. Se la Corte riflette nel suo insieme un orientamento ideologico identificabile, il gioco è fatto.
Biden si trova a dover vivere con una Corte in cui l’equilibrio, che a lungo è stato centrista ma aperto a istanze liberali, è ora a maggioranza conservatrice; le dimissioni del Giudice Breyer, che figurava appunto tra i centristi “liberals”, comporta per il Presidente la sua sostituzione con un magistrato di idee non diverse dalle sue.
E mi sembra di poter dire che Biden - mantenendo il suo proposito di nominare una donna della comunità afroamericana - abbia scelto incredibilmente bene. La sua candidata è Ketanji Brown Jackson, un magistrato di colore, con un curriculum impeccabile (tra l’altro ha lavorato nel team di Breyer), e in questi giorni sta percorrendo l’iter di conferma che avviene presso il Senato, trasmesso in diretta dai canali ufficiali, e di colpo ora anche da quelli commerciali. Il fatto è che la candidata da subito ha spazzato qualsiasi dubbio potesse aversi sulla sua competenza professionale, dimostrando di sapersi muovere nel difficile mondo della giurisprudenza di questo paese, dove occorre dominare leggi e precedenti, un po’ come usava da noi memorizzare le pandette di Giustiniano prima che Napoleone ci spingesse a scrivere dei codici. Fin qui, simile competenza era dovuta. Ma lo spettacolo è iniziato con la successione di attacchi dei Senatori Repubblicani, evidentemente mossi non dallo scrupolo di scegliere un giurista degno, ma da quello di precludere al lato “liberal” del mondo americano la possibilità di vedersi compresi da un membro della Corte. Non basta. Ho assistito - sempre più sgomento - al seguito delle udienze parlamentari, che sono ancora in corso e che si concluderanno a breve con un voto che a questo punto non potrà che avvenire secondo linee di partito. Dire che le insinuazioni e gli attacchi ad personam messi in atto da una serie di Senatori del Grand Old Party fossero ingiuriose non rende giustizia alla realtà; impeccabile, invece, la dignità della candidata.
Esiste già un magistrato di colore tra i nove “Supremi”, avanti negli anni e poco appariscente, bene accetto ai conservatori; ma Ketanji Brown Jackson è giovane (chissà quanti anni avrà davanti nella Corte!), ed è riservata ma (con ragione) non umile – non si può sfuggire alla sensazione che sia questo il punto dolente.
I numeri indicano che la candidata con ogni probabilità supererà la prova. La sua persona emerge già vincente, dopo aver illustrato al pubblico televisivo americano cosa voglia dire razzismo, ancor oggi, in questo paese. Se così sarà, la Corte non cesserà di essere suprema.
Se il paese è diviso, come potrebbe non esserlo l’austero Senato. Ma perché questa piazzata? La lezione è che centosessanta anni dopo la Guerra di Secessione gli eletti Repubblicani del Sud sentono di dover fare questo indegno teatrino come una strizzata d’occhio all’elettorato di casa loro, ormai a poca distanza dal prossimo voto che rinnoverà la Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato, e da cui dipenderà la possibilità per Biden di governare efficacemente. Il commento è che l’indice dei sondaggi di questi giorni mostrano un crescente approvazione della sua gestione sia della pandemia che della crisi Ucraina, pur senza spostare gran che l’indice complessivo (l’inflazione! Il costo della benzina!).
Franklin
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