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Dov'è finito Fukuyama

Lettera da Washington


Forse la cosa che colpisce di più sotto vari aspetti qui in America, in questi giorni di tensione e di sgomento, è la reazione di fronte ad eventi che in molti avevamo rimosso dal nostro orizzonte, relegandoli con sollievo alla soffitta dei ricordi, tra memorie polverose di tempi lontani di rivalità tra Est e Ovest, tra democrazia e autoritarismo, tra libertà d’impresa e dogma comunista, tra libertà di pensiero e dottrina. Chissà dov’è finito Fukuyama, quello della “fine della Storia”.


Abbiamo presto realizzato che mentre la nostra saggezza ha voluto che fondassimo una alleanza militare e politica per proteggerci da simili eventi, abbiamo al tempo stesso tracciato un limite che esclude con certezza dalla protezione chi non ne fa parte: mentre il nostro rischio diminuisce, il loro aumenta e talvolta conduce a guerra aperta. Sorge così l’alternativa tra distogliere lo sguardo, o “fare qualcosa”, il momento oltre il quale interviene la responsabilità di rischiare una catastrofe maggiore di quella che si sta già svolgendo sotto i nostri occhi. Superare la barriera apre l’incognita se sarà pace che fluirà verso i combattenti, o guerra che fluirà verso i pacieri; accettare il rischio può condurre a scalare il conflitto a un livello in cui non ci sono più dighe contro il dilagare della violenza estrema. E con ciò si intende, a quel livello, il gradino nucleare, raggiunto il quale il pericolo diventa globale.


Per un soggetto con capacità nucleare, difendere dall’attacco di un altro paese nucleare un paese che non lo è, comporta muoversi molto vicino alla sottile separazione tra conflitto tradizionale e uno in cui l’arma atomica viene adoperata. Tutti sappiamo che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale questa soglia è stata talvolta sfiorata; la nostra sopravvivenza testimonia che non è mai stata superata, anche se talvolta solo fortunosamente. Dunque una sicurezza tutt’altro che assoluta. Con la caduta del muro di Berlino, avevamo finalmente tirato un sospiro di sollievo: quando le testate atomiche ricavate dall’arsenale sovietico sono davvero partite verso gli Stati Uniti, lo hanno fatto sotto forma di uranio da impiegare nelle centrali elettriche; ancor oggi, metà dell’uranio impiegato negli USA per la generazione viene dall’ex-URSS.


Ma in Russia restano ancora migliaia di testate pronte all’impiego, un numero probabilmente equivalente alla disponibilità americana. La rassicurante immagine dell’uranio trasformato in energia domestica è ingannevole, e ancora ci troviamo alle prese col rischio catastrofico di un conflitto nucleare. Stavolta il rischio non deriva solo dall’incidente imprevedibile; oggi dobbiamo invece considerare il pericolo che l’arsenale con tanta cura costruito arrivi a essere adoperato, non per il suo vero scopo, che era di prevenire una guerra, ma per quello alternativo, quello di farla. Restiamo perciò nel dilemma di come - senza scatenare un nuovo olocausto - porgere la mano a un paese che l’invasione russa ha forse tardivamente rivelato ai nostri occhi come uno di noi, la prima delle conseguenze non preventivate da Mosca.


Un’altra conseguenza appare sotto forma di un senso di coesione inaspettato tra europei. Si ripropone l’idea che l’Europa non possa restare nell’equivoco che rifiutando il militarismo si sia votata all’impotenza. Al contrario, la scelta democratica ci ha dato una ragione per definire le circostanze in cui noi europei che lavoriamo, studiamo, viaggiamo come cittadini di un’unica realtà, ci risolviamo anche a combattere a nostra difesa, se a questo si deve arrivare.


Ciò che accade in Ucraina dovrebbe farci accelerare questa decisione, e farci compiere i passi necessari per renderla effettiva: se ci affidiamo a un deterrente, occorre che esso sia massiccio. L‘Europa deve preservare la sua democrazia, responsabilità che non può assolvere se è, essa stessa, frammentaria. Il tema è dunque ancora quello della necessità di unirci per essere pronti a difenderla, come la lezione di queste settimane mostra che potrebbe essere necessario. Se l’Europa ha bisogno dell’unità per alimentare un’economia gigantesca come quella che ha creato in questi decenni, ha anche bisogno dell’unità per difenderla, e non solo contro l’ostilità altrui, ma anche per raggiungere gli obiettivi comuni a noi e a tutti gli abitanti del pianeta. A nulla servirebbe agire alla spicciolata contro un pericolo comune, né salvare l’Europa se il mondo si avvia a perire.


Se l’Europa è capace di riunirsi attorno all’idea di democrazia per metterla al riparo della minaccia esterna, deve anche poterlo fare per risalire la corrente della rovina ecologica cui andiamo quotidianamente incontro. Nel 1945, abbiamo avuto le Nazioni Unite, e ci è sembrato di aver posto fine a secoli di violenza: cinque anni dopo già si combatteva in Corea. Le Nazioni già non erano più Unite; stavolta occorre che lo siano davvero, e non è né possibile, né sufficiente cercare di salvaguardare un nostro angolino privato.


Negli States, non si sa se rallegrarsi della reticenza a proclamare una nuova crociata, o preoccuparsi della strumentalizzazione di questa angosciosa catena di violenza ai fini del piccolo cabotaggio politico. Restiamo stupefatti dalla celerità con cui Putin è stato inizialmente quasi santificato dalla destra populista americana, quella stessa che segue ancora, ipnotizzata, il tortuoso percorso dell’ex-presidente Trump. Nulla sarebbe successo se Trump fosse stato ancora alla Casa Bianca, perché i russi avrebbero avuto paura di lui, hanno subito affermato i suoi mezzibusti televisivi dalla destra, mentre i loro dirimpettai, senza pietà, mostravano le immagini di Trump che proclama la sua ammirazione per il genio del suo collega di Mosca.


L’inattesa resistenza degli Ucraini ha cambiato le cose. La reazione patriottica di quel popolo è esplosa e il temuto (e ancora possibile) massacro dei difensori si è tramutato nella tenace resistenza cui assistiamo. Il personaggio televisivo che diventa un leader per la nazione, è evidente, può risultare un Trump o un Zelensky, e agli americani non è sfuggita la differenza. Vedremo presto se avrà conseguenze politiche.


I think-tanks americani si chiedono ora se non sia l’occasione per cercare di raffreddare il flirt tra Cina e Russia, trovandosi i due paesi in differenti situazioni. Pechino nel voto dell’Assemblea Generale dell’ONU si è astenuta sia dalla condanna che dal sostegno; l’intesa tra i due leader formulata al momento delle Olimpiadi (non sfugga l’ironia) sembra tiepida e distante. Chi veramente ha guadagnato libertà d’azione è la Cina: con il patto concluso con Xi Jinping, Putin si è messo nelle sue mani, e la umiliante performance delle sue forze armate gli ha negato la possibilità di atteggiarsi a condottiero vincitore e restauratore della pace. Pechino ora ha muscoli da flettere, è centrale nei commerci mondiali e ha da poco anche una capacità di proiezione militare che le mancava nei decenni passati. Una “Pax Sinica” non sarebbe impossibile, né sarebbe necessariamente limitata all’Ucraina.


E l’Europa? Oggi qui tra le verdi colline della Virginia, dove questa nazione è stata modellata da una generazione di gentiluomini letterati, formati sui classici europei e capaci di mescolare grandi ideali umanistici col pratico ingegno pionieristico, ci si può chiedere se queste vicende siano viste nella stessa luce in cui le vediamo noi del Vecchio Continente, e la risposta è incerta.


L’Europa appare piccola, frammentata e lontana, tra memoria storica e oblio presente. Questo episodio di eroismo collettivo è indubbiamente impressionante e non poteva mancare di scuotere l’opinione pubblica americana. Si aggiunga l’istintiva simpatia per l’ “underdog” che combatte nonostante i pronostici, più il ricordo di cinquant’anni di inimicizia con la Russia sovietica, ed è facile vedere come il paese abbia preso partito immediatamente a favore dell’Ucraina (intorno al 75% fin dal primo sondaggio), rovesciando i dati della vigilia. Intorno al 60% hanno dichiarato che l’America doveva apertamente schierarsi con l’Ucraina, soprattutto tra i Democratici ma anche quasi metà dei Repubblicani, una novità.

Sarebbe interessante se alla fine si trovassero gli USA più uniti dal risorgere dell’avversario abituale; la NATO rinvigorita dal ricorso ai suoi servizi e alla sua competenza; infine, l’Europa compattata dal prezzo che sta pagando, però chissà, forse trovando così al suo interno una inaspettata nuova generazione di grandi europeisti.


Franklin

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