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Elezioni Usa: una fedeltà a tutta prova

Il vantaggio di Biden nei sondaggi non si è sostanzialmente mosso con circa il 70% di probabilità di vittoria.

I sondaggi di questa settimana hanno mostrato un peggioramento in Pennsylvania ed un miglioramento in Wisconsin ma la situazione è sempre molto stabile.

Una forte discussione è in corso in questi giorni sui commenti che Trump avrebbe o non avrebbe fatto sui soldati ed i veterani ma se questo avrà effetto sui sondaggi così come se potrà averlo il nuovo ciclo di proteste legate al Black Lives Matter, lo vedremo non prima della prossima settimana.

Oggi il Commento Politico vuole comunque attirare l’attenzione su una straordinaria caratteristica del giudizio su Donald Trump che costituisce una assoluta eccezione rispetto a tutti i presidenti degli Stati Uniti del dopoguerra, sia democratici che repubblicani.

La caratteristica che vogliamo sottolineare è che i l'approvazione e la disapprovazione di Trump sono eccezionalmente stabili nel tempo e non sembrano subire oscillazioni significative rispetto alle vicende né della politica interna né internazionale.

L’approvazione del suo operato si colloca intorno al 42% della popolazione e non mostra oscillazioni che vadano oltre uno o due punti percentuali verso l’alto o verso il basso.

Nell'immagine mostriamo la variazione della sua popolarità (in verde) a confronto con quella di Bush (in nero).



Come si vede dalla pagina di fivethirtyeight.com nella quale queste valutazioni su Trump sono messe a confronto con l’evoluzione dei giudizi degli elettori americani nel corso della Presidenza dei suoi predecessori, tutti i presidenti hanno subito forti rialzi o ribassi nei giudizi degli elettori nel corso dei loro mandati ma non Trump.

L’interpretazione di questa evidenza è che gli elettori di Trump gli sono fedeli a prescindere dalle vicende interne o internazionali o alle prese di posizioni dello stesso Trump. La divisione fra repubblicani e democratici si è cristallizzata e sembra andare nella direzione indicata da alcuni accademici come Alan Abramovitz e Rachel Bitecofer (che noi spesso citiamo e di cui si parla in un interessante articolo di febbraio scorso su Politico.com) per cui il connotato più forte nella valutazione di un presidente è la “negative partisanship”: “non importa quello che il leader del mio partito dice; mi va bene perché io sono contro gli altri”.

Un connotato senza precedenti della politica americana. Esso forse potrebbe ricordare aspetti della vita italiana nel corso degli anni nei quali Silvio Berlusconi è stato direttamente impegnato in politica nei quali si costatava una rigidità della divisione fra favorevoli e oppositori che non sembrava dipendere dalle vicende interne o internazionali neppure forse dalle posizioni assunte dallo stesso Berlusconi.

In situazioni come queste, si può immaginare che l’elettorato favorevole vada senz’altro a votare fornendo a Trump una base molto solida su cui poter contare e, oltretutto una base sufficiente ad assicurargli un numero di voti significativo nel collegio elettorale, mentre l’esito dello sfidante democratico dipenderà essenzialmente dalla capacità di mobilitare e di indurre a votare la parte che risulta maggioritaria dell’elettorato che disapprova dell’operato di Trump. Per questo la sfida è aperta e molto può dipendere dalla espressione del voto da parte delle minoranze. In questo quadro è significativa la decisione della NBA di creare delle polling stations cioè delle sezioni elettorali presso le strutture sportive. È un modo per contrastare il tentativo di limitare l’esercizio del diritto di voto da parte delle minoranze etniche in cui sono impegnati i governatori repubblicani degli stati in bilico che potrebbero rivelarsi significativi.



 

link alla nostra pagina sulle elezioni Usa

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