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Gli affanni della democrazia in America


Lettera da Washington


Sia nella tradizione cristiana che in quella ebraica, la festa del “passaggio” è al centro della vita delle famiglie, e questo vale anche qui in America - dove coincide con l’inizio reale della primavera e una vacanza scolastica che sguinzaglia dovunque bande di studenti in libertà.

Questa atmosfera un po’ carnascialesca non è arrivata a lambire i severi templi neoclassici nella capitale, in cui si coltiva questo esigente arbusto che è la democrazia americana.


Il trionfo della democrazia non è assoluto: occorre alimentarlo e non si può smettere di sorvegliarlo, perché è soggetto al degrado. Non ci sono società a prova di logorio. Franklin, Benjamin Franklin, questo lo sapeva fin dal principio: uscendo dalla Independence Hall di Filadelfia, dove era appena stata firmata la Costituzione, a un cittadino che chiedeva quale forma di Stato si era deciso di adottare, Franklin rispose “una Repubblica - se saprete conservarla”, prima di dileguarsi tra la folla che attendeva. Duecento trentacinque anni dopo, la battuta acquista attualità.


Questa democrazia, che ha superato i momenti del cieco entusiasmo, dell’indifferenza, della divergenza, dell’ignoranza, della contrapposizione, deve ora affrontare il giorno in cui emerge nella nazione un sentimento più radicale, questo sì capace di sovvertire la Repubblica. È arrivata la stagione dell’odio, e basta percorrere un po’ di America rurale, piuttosto che quella delle grandi città, per constatare come il dibattito politico abbia ormai superato l’orlo della polemica per entrare nel territorio pericoloso ed iconoclastico di questo forte, sordo, sentimento.


Bisogna tornare al 2016, quando la campagna elettorale culminò con l’incitamento della parte Repubblicana, guidata da Trump, a incarcerare la sua rivale di quell’anno, Hillary Clinton. Mai prima di quella elezione i contendenti alla guida del paese si sono scambiati simili invettive; a rigore, neanche quella volta, poiché le invettive furono a senso unico. Oggi il veleno non è più confinato all’estremismo di parte, ma la sua espressione è diffusa nelle calme strade rurali della provincia, dove gli abituali cartelli inneggianti alla patria, o magari agli slogan di partito, sono sostituiti sempre più da quelli che esplicitano gli insulti più volgari nei confronti dei politici avversari e dei loro sostenitori.

Perfino in Virginia, uno Stato per bene non solo nella politica ma anche nei costumi, dove è ancora radicata la tradizione della antica cortesia che fa evitare gli argomenti scabrosi o controversi con sconosciuti, qua e là cartelli artigianali invitano educatamente i pallidi cittadini a tornarsene a casa. Ma da questa garbata invocazione si passa nella realtà a estremi di virulenza verbale come non si vede nemmeno negli stadi. Come conciliare questi due volti?

La risposta sta nel conservatorismo difensivo che caratterizza la visuale di questo campione di cittadini. Cresciuti nel riparo agreste, diffidenti verso governo, città, costumi sconosciuti e istanze ugualitarie (un secolo di guerra al marxismo lascia traccia), non sono attratti da promesse di riforme, al contrario sono radicalmente opposti a innovazioni che sentono ispirate a un mondo diverso dal loro, quindi antiamericano. La nicchia che salvaguardava il modo di vita tradizionale è caduta sotto i colpi delle autostrade e degli agriturismi, ma soprattutto dei media moderni, contri i quali non vi è riparo. L’America rurale si difende attraverso il culto delle radio locali e dei predicatori di campagna, che avallano un paese ancorato al passato, contro il pericolo del crollo del mondo in cui credono e l’abbandono dei valori tradizionali. Essi ne vedono i sintomi nell’apertura inesorabile della società verso forme di tolleranza che sono ai loro occhi offensive e inconciliabili con i modelli sociali e religiosi tramandati nel tempo. È un popolo che va riducendosi: si calcola che la popolazione rurale in America sia di circa 60 milioni, meno di un quinto della popolazione, mentre nel 1910 era vicino al 60%, ma è forse la Vandea dell’America.


È questa imminente tempesta culturale che turba i tenaci agricoltori e allevatori, il cui modello di vita sembra svanire troppo rapidamente, mentre i cittadini profughi dalle grandi distese urbane accorrono verso queste terre di boschi e colline verdi, pieni di nostalgia per il mito rurale del paese, cercando di afferrarne la coda, ma portando con sé proprio i valori e le alienazioni contro cui si difendono i locali.

Che la politica possa trascinare con sé estremismo, corruzione, disprezzo, odio, non è nuovo; che arrivi a questa aperta aggressività invece segna il raggiungimento di un livello nuovo, dal quale sarà difficile scendere a livelli inferiori di contrapposizione. La conciliazione richiede volontà da entrambe le parti; le elezioni di novembre, con la vittoria di una o l’altra delle parti, non riporteranno necessariamente alla comune civiltà da cui si è dipartiti, né risolveranno il crescente estremismo; l’intolleranza della diversità non sarà spazzata via, come non lo è stata dopo la tornata elettorale del 2020, ma anzi acquisterà ogni volta maggiore urgenza.


Come se ne esce? Occorrerebbe una leadership nazionale capace di infondere nuova fiducia e dominare la scena con la serenità che sapeva diffondere Obama, che trascinò il popolo americano a credere nuovamente nella propria democrazia e nelle sue promesse. Non so se spinto dal partito o dal proprio senso di patriottismo, puntualmente Obama dopo lungo silenzio è ora nuovamente apparso in pubblico, accolto da una immediata reazione di nostalgia - sulla quale si sono tutti interrogati, a cominciare dallo scrivente.

Nei fatti, forse Obama non è stato il Presidente epocale che si era sperato, non tanto per sua colpa, quanto per l’ostruzionismo senza scrupoli e senza limiti che si trovò ad affrontare durante il suo mandato. Durante otto anni riuscì ad attuare un solo punto di tutto il suo programma, peraltro importante: la legge sulla copertura sanitaria (la cui mancanza faceva dell’America la pecora nera tra le nazioni sviluppate). Ogni altro progetto fu bloccato dall’opposizione a priori del partito avverso, seguendo lo stesso modello al quale si attiene oggi contro Biden. Eppure la maggior parte del paese aveva ricavato l’impressione di essere compresa, e aveva visto avallate le proprie aspirazioni, anche se poi delusa negli esiti.

Il paese è oggi più radicalizzato di quanto sia mai stato negli ultimi decenni. La compattezza, perfino esuberante, del 2001, si è sciolta, e così l’ebbrezza del 2008. Ha lasciato due fazioni, ciascuna atterrita dalla prospettiva di prevalenza dell’altra: non è la contrarietà per il possibile sopravvento di un’idea diversa, è il timore di ciascuna delle parti che l’altra imporrà una svolta epocale destinata a restare nella società americana, e questo timore è cresciuto al punto di travalicare in odio, aggressivo e oltre la ragione.


La democrazia americana è una pianta robusta, sopravvissuta agli anni iniziali in cui appariva come un tenero germoglio, e poi alla vigorosa crescita successiva -quando i viaggiatori affluivano dall’Europa per verificarne il funzionamento alla prova dei fatti. Il giovane Tocqueville ne uscì entusiasta, scrisse un acuto “best seller” che non è mai scomparso dalle librerie, tanto che Amazon ne propone ancora cinque diverse edizioni.


Pochi, invece, conoscono il suo “L’ Ancien Régime et la Révolution”, in cui lo stesso Tocqueville, un po’ invecchiato, descrive un capitolo successivo: l’ascesa al potere in Europa di una nuova generazione di tiranni dopo l’esaltante periodo rivoluzionario; forse dovremmo leggerlo.


Franklin

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