Lettera da Parigi
Il sospiro di sollievo diffusosi in Francia ed in Europa nel “campo della ragione”, secondo la prevalente, stringata definizione del composito schieramento che ha assicurato in patria la vittoria a Emmanuel Macron, è durato lo spazio della breve serata di celebrazioni di domenica scorsa.
E che la pagina più complessa aperta dalla rielezione del Presidente uscente si palesi fin dal day after e si declini intorno alle mille difficoltà del momento presente, è confermato tanto dalla sobrietà dei festeggiamenti, quanto dall’immediato avvio di un nuovo dibattito su tutti i media: concentrato, più ancora che sull’esegesi del voto del 24 aprile, sul tema delle anticipazioni e delle aspettative in vista del “terzo turno”, quello cioè del rinnovo dell’Assemblea Legislativa, con le elezioni politiche previste a doppio scrutinio maggioritario il 12 e il 19 giugno prossimi.
Le due espressioni – entrambe icastiche come degli incisivi leit motiv – cui si fa quotidianamente ricorso per fotografare il quadro politico sono “la France d’en haut” contrapposta alla “France d’en bas” per raffigurare in maniera un po’ spicciativa (e alquanto imprecisa) la composizione sociale, geografica e generazionale dei due blocchi che si sono sfidati nella Presidenziale, assieme all’altro, che assume crescente spazio, della “fatigue démocratique” simboleggiata dall’astensionismo record, pari a un terzo scarso dell’elettorato (e quindi ancora contenuto rispetto ad altre fattispecie del mondo occidentale), ma qui del tutto in controtendenza nel caso della “madre di tutte le elezioni”, quella appunto per l’Eliseo.
Lo stato di grazia (o la luna di miele) che accompagnava di norma i primi mesi di un leader suffragato da una chiara maggioranza di preferenze è ormai un pallido ricordo dei tempi passati; tanto più nel caso di specie di una riconduzione nelle sue alte funzioni di un Presidente uscente.
Il primo ad essersene mostrato consapevole è stato lo stesso Macron, che ha scelto una breve “passeggiata” celebrativa verso la Tour Eiffel, la mano nella mano con la consorte ed attorniato di un gruppetto di adolescenti e di bambini (pur accompagnata dallo stesso Inno alla gioia beethoveniano in omaggio all’Europa che scandì la solitaria marcia trionfale al Louvre cinque anni orsono), e poi un conciso e misurato messaggio inaugurale, ispirato alla piena coscienza di essere stato votato anche da tanti suoi potenziali detrattori, più in funzione di rigetto della destra nazionalista che di adesione al suo progetto e alla sua leadership.
Non vi è dubbio che l’affermazione di Macron si sia tradotta in un successo senza precedenti (mai un Presidente della Quinta Repubblica che non fosse stato protetto da una fase di “coabitazione” con l’opposizione era riuscito a farsi rieleggere). Ed è innegabile che abbia coronato un percorso particolarmente irto di crisi e di ostacoli, di volta in volta superati o dribblati con scaltrezza tattica e con lungimiranza ed acume.
Il compito che lo attende per il prossimo quinquennio, tuttavia, è immane ed ancor più esposto alla volatilità dei tempi; gli impone, insomma, di convertirsi da giovane e temerario outsider in maturo e riflessivo statista, in grado stavolta di pacificare gli animi in una Francia frammentata e protestataria, angosciata dalle incerte prospettive economiche e sociali, malcontenta delle sue istituzioni, travagliata da un’autentica crisi identitaria: permangono cioè (ed incombono sulle scelte future) tutti gli ingredienti cavalcati dal sovranismo populista – tuttora maggioritario nel Paese – che hanno condotto la destra di Marine Le Pen ad un livello di consensi mai raggiunto prima ed alla rimonta dell’arcipelago della sinistra, unificato per convenienza più che per convinzione dal tribuno Mélenchon.
È questa la sola vera “spaccatura” in due distinti emisferi che domina la scena politica, più sul piano del metodo che su quello degli obiettivi, con da un lato l’idea repubblicana, universalista e filo-europea e, dall’altro, quella del populismo e del sovranismo identitario e nazionale. Per il resto, l’ “éclatement” francese – come lo definiscono qui – è una frantumazione molto più diffusa e multiforme che non può venir letta con la sola semplificazione di una contrapposizione fra classi e ceti sociali, fra popolazione rurale ed urbana, fra giovani inseriti nel mondo del lavoro e marginali irrecuperabili, fra acculturati e non diplomati.
Macron, di cui il Consiglio Costituzionale ha proclamato ieri ufficialmente la vittoria con il 58,55% dei suffragi, sembra non ignorare la complessità del compito che lo attende, anche se tiene ancora le carte coperte sulle iniziative concrete che intende assumere nel breve e nel medio periodo.
Sul piano personale ha voluto lanciare un primo segnale di valore soprattutto mediatico, accantonando nell’immediato solenni cerimonie ufficiali e scendendo sul terreno con un bagno di folla a Cergy Pontoise, nel cuore della banlieue multietnica parigina. Vi è stato accolto da un pubblico particolarmente numeroso e non unanimemente favorevole con il quale si è intrattenuto per ore, mettendo a dura prova la scorta ed intavolando discussioni dirette con i cittadini, quasi a voler sottolineare il suo impegno di ascolto e di prossimità e sfatare la nomea di Presidente delle élites, sordo alle istanze della “France d’en bas”.
Anche sul controverso tema del malessere istituzionale – quello che alimenta la “fatigue démocratique” – il Presidente rimane per ora criptico e si trincera dietro generiche promesse di un cambiamento generale di metodo nella consultazione futura cui intende fare ricorso sia per il tramite dei corpi intermedi che in un rinnovo delle forme di connessione diretta con i cittadini. A fornire qualche indizio più concreto in materia hanno però pensato alcuni suoi sostenitori, soprattutto di centro, come l’ex Primo Ministro Raffarin (simbolo della moderazione federativa dei movimenti assimilabili alla nostra Democrazia Cristiana) o lo stesso François Bayrou: entrambe hanno delineato un percorso consensuale per una riforma del sistema elettorale aperta a significativi avanzamenti del proporzionale tale da rispondere all’ormai incalzante richiesta delle opposizioni e ad un significativo rafforzamento del ruolo del Parlamento. Entrambi hanno precisato che un impegno in tal senso finirebbe per articolarsi sull’arco dell’intero quinquennio e postulerebbe una prima fase, affidata ad un esecutivo di “programma” incaricato di assicurare la formazione di una composita maggioranza parlamentare aperta alle riforme oltre che alle misure sociali ed economiche più urgenti.
Seguirebbe, in un secondo momento e dopo l’eventuale approvazione del nuovo sistema elettorale, lo scioglimento dell’Assemblea e – conforme ai nuovi equilibri della rappresentanza popolare – la nomina di un secondo esecutivo destinato a concludere il quinquennio e con esso l’era Macron.
Dal canto loro, le opposizioni non rimangono con le mani in mano. Marine Le Pen sembra arroccarsi su posizioni solitarie, respingendo sdegnosamente le offerte di alleanza di Zemmour per le legislative, in nome di una ricomposizione della destra, e rivendicando quasi a titolo personale – e a rischio di non raccogliere un numero di deputati commisurato all’altissima percentuale di voti raggiunta il 24 aprile – l’esclusivo ruolo di Capo dell’opposizione nel Paese. Mélenchon , con i consueti accenti tribunizi da Capitan Fracassa tenta invece la strada opposta: quella di unificare in extremis la gauche (socialisti, verdi e comunisti ed i suoi “sans culottes” insoumis) nell’intento di racimolare una variopinta maggioranza rosso-verde di deputati e di costringere il Presidente ad un regime di co-abitazione. Vengono affissi per ogni dove, allorché le trattative quadripartite sono ancora in una travagliata fase preliminare, migliaia di manifesti con la sua effigie in veste di futuro Primo Ministro.
Nel contempo ed anche nel campo presidenziale sono già attivamente in corso i consueti “pourparlers” imposti dal complesso sistema maggioritario a doppio turno sui 577 collegi elettorali, con le regole cogenti imposte dalla legge elettorale, miranti ad accordi sottobanco per desistenze o designazioni convenute sul complesso scacchiere territoriale delle circoscrizioni.
La prossima scadenza che attende il Presidente, dopo l’ultimo Consiglio dei Ministri di commiato previsto per oggi, è la designazione del prossimo Governo con la nomina di un nuovo (o di una nuova) Primo Ministro. Su tutti i media impazza il toto-candidato, sulla traccia ancora anodina abilmente fatta circolare dalla “macronie”: si dovrà trattare di un’esponente della cerchia allargata del Presidente, preferibilmente donna, provvista di una sensibilità di sinistra, di sincera indole riformista, di grande apertura ecologista, di capacità di mediazione politica e sindacale; un uomo (o una donna) che sappia al contempo, a capo di una compagine ristretta di ministri (si parla di non più di dodici) promuovere e consolidare la maggioranza presidenziale in vista del 9 giugno .
Macron ci ha abituati al suo agire in fretta ed a sorpresa. Nel frattempo si dedicherà al tradizionale, primo appuntamento internazionale a Berlino, stavolta con l’aura del riconfermato e sperimentato leader europeo, in controtendenza con il novellino che si era presentato, nel 2017 alla veterana Angela Merkel: tutto questo sullo sfondo calamitoso del conflitto in Ucraina e dell’ipotesi di un viaggio (con o senza Olaf Scholtz) a Kiev.
l'Abate Galiani
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