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Il G7 e il deserto dei Tartari

Il fortino al confine di quel deserto dei Tartari immaginato da Buzzati potrebbe chiamarsi “G7”. In esso, e in successione, i Sette assumono il ruolo del Tenente Drogo, scrutano l’orizzonte, alla fine del turno di guardia fanno rapporto, e il rapporto trova un posto permanente nell’archivio. I Tartari, oltre l’orizzonte, preparano qualcosa che ancora non si vede.

Al termine, dunque, nulla di fatto? No. Si sarà condiviso il pensiero e l’agenda di ciascuno, si saranno delineati consensi, se ne saranno ispezionati i limiti, si saranno concordati progetti e riforme da condividere. A suo tempo, il Concerto delle Nazioni, quando i vertici si facevano a Vienna, si fondava sull’idea che avrebbe avuto il potere di imporre. Il G7, un paio di secoli dopo, è nato invece dopo una crisi, da una coalizione essenzialmente difensiva, poggiata sulla supremazia economica collettiva dei partecipanti, che a sua volta implicava per il gruppo una sorta di responsabilità globale, idealmente legittimata dal loro comune requisito di essere democrazie.

Ma il potere collettivo che ne promana è ben diverso da quello di comandare, come nell'800, ed è quello di mostrare la strada. Anche così, la premessa fondamentale oggi è discutibile: il G7 non rappresenta più la maggior parte dell’economia mondiale, e non raccoglie più i sette paesi più produttivi del pianeta. Se si rifacesse l’esame di ammissione, solo tre degli originali sette resterebbero seduti al tavolo: Stati Uniti, Giappone, Germania. Né l’anfitrione della riunione del G7 che si apre oggi in Cornovaglia, né alcuno degli altri sarebbe presente, ma ci sarebbero invece Russia, Cina, India, Indonesia. Il G7 non sarebbe più Atlantico, ma, caso mai, Pacifico.

Nulla è immutabile: l’idea che il progresso potesse avanzare al punto di estendersi a gran parte del pianeta è vecchia, e così anche l’ipotesi che altrove civiltà in letargo potessero scuotersi e organizzarsi per recuperare il distacco economico. Ora è accaduto; di conseguenza l’idea di un consesso ristretto di nazioni, come il G7, in cui si prendono decisioni globali, ha perso vigore, ma non ne ha annullato l’utilità.

Così è da salutare il primo atteso risultato del G7 di quest’anno, l’intesa sulla tassazione delle imprese offshore che permetterebbe di recuperare il dovuto dalle aziende che scelgono sedi di comodo a bassa imposizione, mentre fabbriche e mercati sono altrove. Il fenomeno è fiorente. Per esempio, un numero sorprendente di grandi aziende che crediamo italiane sono in cuor loro appassionatamente olandesi. È un grande sviluppo; e vedremo a valle di questa intesa come l’attuazione giustificherà le lodi.

Grande è anche la tacita attesa di un secondo esito del vertice. È il primo incontro di Biden con i principali rappresentanti di questo “concerto delle democrazie”, alla vigilia di altri incontri al di fuori della cerchia degli amici e alleati. Il Presidente americano avrà un handicap, il quadriennio di Trump che ha seriamente minato la credibilità internazionale dell’America e ne ha illuminato le vulnerabilità. In Cornovaglia, avrà l’occasione di rassicurare gli amici e alleati e dare la misura dell’impegno americano a sostegno dei valori comuni, non banale con Trump respinto ma ancora dietro le quinte. Se vi riuscirà, forte del recente sondaggio globale della Pew che indica un rimbalzo dal 15% all’84% della popolarità dell’America dopo Trump, potrà affrontare il resto dell’orizzonte internazionale con maggiore sicurezza, cominciando subito da Putin e oltre più a Est.

Si percepisce la sfida aperta alla leadership americana, e il tema per la durata della presidenza di Biden sarà come affrontarla. Una nazione fondata sui principi non ha molte scelte; non si possono accantonare a piacere senza recare danno alla propria democrazia, e la tentazione dell’appeasement può essere forte. Per Biden, alla sua prima apparizione con la responsabilità della maggiore potenza mondiale in questa fase inquietante della propria storia, si tratterà di proiettare sicurezza di sé e del proprio mandato. Potrà farlo?

Biden, in casa, non naviga acque tranquille. Il suo controllo del Congresso tiene a un filo, e si discute se non si presterebbe piuttosto a una spregiudicata aggressiva gestione alla Johnson anziché alla paziente tessitura che è naturale a Biden. Il suo programma legislativo va a rilento, un tassello alla volta collocato con la calma di un certosino, quando invece il campo avverso aggredisce brutalmente qualsiasi cosa promani da questa Casa Bianca. Progressi si fanno, ma l’impazienza cresce e con essa l’inquietudine. La lotta alla pandemia procede bene, ed è anche passato uno stanziamento di 250 miliardi per sostenere innovazione e competitività nell’economia americana, con una maggioranza che comprendeva anche una ventina di voti repubblicani, un successo. Ma il resto è arenato perché i Democratici non hanno i voti necessari, pur disponendo al Senato di 50+1 voti, dato che uno dei 50 si è impegnato a votare contro i provvedimenti che non raccolgano alcun voto da parte dell’opposizione. Il Senatore Democratico Joe Manchin della West Virginia è stato in queste settimane proiettato alla ribalta politica per questo motivo; rischia di mandare per aria la presidenza di Biden, dato che la posizione ufficiale dei Repubblicani è di non approvare assolutamente nulla (come fecero durante la presidenza di Obama).

Peggio, mentre il Congresso si dibatte in queste pastoie, nel paese continua la logorante opera di mina contro il sistema elettorale. In Arizona, ormai da quasi due mesi prosegue il riesame delle schede elettorali dello scorso novembre, il cui risultato sarà probabilmente non di rovesciare l’elezione, ma di alimentare comunque la sfiducia nel processo democratico, rafforzando la aperta tendenza dei Repubblicani del Sud ad impastoiarlo in regole e disposizioni che scoraggino la partecipazione al voto.

Bloccaggio del parlamento, manomissione del processo elettorale, la via della democrazia in America sta diventando tortuosa, con Trump che brontola da un mondo senza Twitter. Sono lontani i giorni in cui il rapporto tra i partiti era tale che un deputato assente poteva pregare un collega del partito avverso di non votare, così da non alterare l’equilibrio in aula - il tutto doverosamente verbalizzato sul Congressional Record del giorno. Così lontani da non evocare più nemmeno nostalgia.

Su questo sfondo, Biden non può fingere esuberanza. Può mostrare calma e lungimiranza e pazientemente giocare le proprie carte. Ha in mano un importante atout: le sue proposte sono popolari presso il pubblico dei cittadini. Opporvisi può voler dire pagare un prezzo, e questa è la sua forza contro gli avversari politici in patria; per contro, progetti e intenzioni, quando non sono seguiti presto dalla realizzazione, finiscono col minare la fiducia, e questo è un serio rischio per l’impazienza rampante tra i suoi sostenitori.

A casa sua, Biden è a capo di una squadra eccellente. Tutti si aspettano che la faccia giocare, e c’è chi morde il freno. Il match è aperto. Intanto, i suoi interlocutori, in Cornovaglia, saranno un po’ inquieti, ma anche certamente ben disposti e garbati. Il suo successivo interlocutore, Putin, probabilmente un po’ meno.


Franklin

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