Nell’intervento introduttivo del seminario organizzato ieri dalla Assonime e dalla Fondazione Ugo La Malfa, il moderatore Dino Pesole, editorialista del Sole 24 Ore, dopo avere precisato che il dibattito verteva sulle proposte avanzate da Assonime e da Fondazione La Malfa sul tema della Governance del piano italiano di utilizzazione dei fondi europei, ha osservato che in questi giorni è emersa la circostanza che il governo intenderebbe utilizzare una parte importante dei fondi europei non per finanziare progetti nuovi, ma per sostituire il finanziamento di alcuni progetti italiani ormai pronti, come ad esempio la tratta Napoli-Bari dell'alta velocità ferroviaria.
Il dibattito, molto interessante, con interventi di alto livello praticamente di tutti coloro che in questi mesi hanno seguito la preparazione del piano italiano, si è prevalentemente concentrato sul merito delle due proposte di Governance, confermando quello che è il loro tratto comune: la convinzione che senza la definizione preliminare di un’adeguata Governance, il piano è destinato a un ritardo se non a un sostanziale fallimento. Il giudizio unanime è che finora il governo italiano non è stato in grado di arrivare a una conclusione su questo punto.
Nel merito, il dibattito ha confermato che le proposte della Fondazione La Malfa e della Assonime sono molto diverse e difficilmente conciliabili fra loro. La Fondazione La Malfa propone la creazione di un ente di durata temporanea, modellato sull’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno o sull’esempio più recente del commissariato per la ricostruzione del Ponte Morandi di Genova, cui venga affidata, sulla base degli indirizzi politici generali del governo e delle direttive europee, la definizione specifica del piano e la sua diretta attuazione, separando così in modo netto la responsabilità politica dalla responsabilità gestionale. Per la Fondazione La Malfa la stazione appaltante deve essere una. L’esistenza di una pluralità di soggetti proponenti e attuativi dei progetti genererebbe infatti il duplice rischio di inefficienze realizzative e di interferenze politiche.
Assonime ritiene, invece, che sarebbe pericoloso prescindere, nella realizzazione di un piano di questa mole ed importanza, dalle pubbliche amministrazioni - centrali e territoriali - e che il farlo potrebbe creare tali contrapposizioni da compromettere l’efficacia dell’azione intrapresa. Per questo motivo, ritiene che si debbano utilizzare le attuali stazioni appaltanti, affidandone però la supervisione e il coordinamento a un ministro per il Recovery Plan e a una struttura con forti connotati di professionalità, che interagisca con delle figure individuate in ciascuna stazione appaltante come interfaccia e interlocutore della struttura nazionale.
Vi sarà modo di approfondire ulteriormente il confronto fra le due ipotesi, anche alla luce del fatto che il governo dovrà affrontare nei prossimi giorni non solo la definizione dei contenuti del piano, ma anche la definizione di una Governance adeguata che per la Commissione europea - come ha fatto osservare in un’intervista su Repubblica Paolo Gentiloni e come ha ribadito ieri nel suo intervento Marco Buti - costituisce una delle condizioni per ottenere i fondi.
Accanto al tema centrale del dibattito, tre interventi si sono poi soffermati sul problema, sollevato da Dino Pesole, della scelta di utilizzare una parte dei fondi del Recovery Plan per sostituire con essi il finanziamento già previsto di altri progetti. Cottarelli ha detto senza mezzi termini che la decisione di Gualtieri era ed è inevitabile, visto il livello del debito pubblico italiano e che quindi bisogna concentrarsi sul modo di spendere i 120-140 miliardi che l’Italia pensa di impiegare per progetti nuovi. Si tratta pur sempre - ha detto Cottarelli - di una cifra assai significativa, che va spesa bene.
Franco Bassanini ha invece dichiarato di essere rimasto sorpreso da questa decisione del governo e di Gualtieri. Nel momento in cui l'Europa mette a disposizione dell'Italia dei fondi che hanno le caratteristiche di un debito ma con scadenze lontane e interessi praticamente inesistenti, egli non comprende la decisione di non farne pieno uso.
Giorgio La Malfa, nella replica che ha concluso il seminario, ha fatto notare che l’aspetto veramente preoccupante della decisione di Gualtieri è che essa rivela un giudizio negativo del ministro dell’Economia sulla qualità del piano predisposto dal governo in questi mesi. Il problema non è se fare o non fare debiti: facendo ricorso all’efficace immagine usata da Mario Draghi in un suo intervento dell’agosto scorso, il problema è che se un debito è buono è bene farlo e sarebbe negativo non farlo; se è “cattivo”, non vi sono dubbi che esso non vada fatto. Come si distingue un debito “buono” da un debito “cattivo”? Lo si distingue – ha detto La Malfa – in base agli effetti che quel debito avrà sul reddito nazionale. Se l’effetto è positivo e consistente, esso darà luogo nel tempo a un gettito fiscale aggiuntivo tale da ripagare pienamente il debito contratto. Se l’effetto è modesto o inesistente, allora è bene non fare quel debito.
Evidentemente, Gualtieri, leggendo le carte arrivate sul suo tavolo, deve avere concluso che una parte importante dei progetti presentati avrebbe costituito debito “cattivo”. Può darsi che abbia ragione, ma perché, allora, il governo ha commissionato progetti a enti e strutture che non sono state in grado di proporre debiti “buoni”, cioè investimenti sani e produttivi? Ma è pensabile che l’Italia non sia in grado di offrire progetti buoni? Un Paese che ha il 10 per cento di disoccupati, che cresce da anni al di sotto del suo potenziale e meno di molti altri Paesi europei, che ha un crescente divario di condizioni di vita fra il Nord e il Sud, può non avere più cose buone da fare? Keynes pensava che alla lunga la crescita dello stock di capitale avrebbe potuto rendere difficile trovare progetti in grado di dare un rendimento positivo. Chiedeva quindi che si facesse scendere il tasso di interesse fino al punto da rendere positivi i rendimenti attesi in un Paese in cui la dotazione di capitale fosse gigantesca. Ma l’Italia è in questa condizione? Il capitale accumulato sarebbe ormai sovrabbondante? Non è certo questa la situazione. Non sono in questa condizione le strutture industriali private. Non lo è il settore pubblico il cui capitale si è consumato in anni di rinunzia agli investimenti. Allora vuol dire che non sono stati elaborati i progetti giusti. Non vi è stata un’idea di come fare ripartire il Paese, per fare cosa e lungo quali direttive.
Questo è un problema politico. Il seminario Assonime-Fondazione La Malfa ha consentito di mettere a fuoco anche questo problema.
Su di esso Il Commento Politico avrà modo di tornare ancora nei prossimi giorni.
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