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Italia e Stati Uniti

Lettera da Washington


È curioso come un paese così ricco di storia e portatore di una complessa e multicolore cultura come il nostro festeggi solo 160 anni di unione; ma - visto da qui - è un’ottima occasione per celebrare anche l’anniversario del riconoscimento americano del nuovo stato unitario italiano, e contemporaneamente dell’inizio dei rapporti diplomatici tra i due paesi.

È curioso anche come, proprio mentre noi festeggiavamo l’unità da poco raggiunta, qui in America nella Carolina del Sud, il 12 aprile del 1861, le batterie costiere di Charleston aprivano il fuoco contro Fort Sumter, dando inizio alla guerra di secessione, nel tentativo di impedire all’America di divenire ciò che è oggi.

Entrambi gli eventi sono infatti le pietre angolari delle rispettive nazioni come le conosciamo ora, e la loro storia ancor oggi riflette il bivio di allora e la scelta fatta, anche se in entrambi i casi l’unità forgiata al tempo di Cavour e di Lincoln non ha prodotto un monolite. Per fortuna, mi affretto a precisare, in entrambi i paesi resta spazio per le particolarità che ci arricchiscono, quelle stesse che danno sapore alla nostra esperienza, anche se al tempo stesso (e questa invece è sfortuna), diversità che arricchisce può degenerare in diversità che avvilisce, e questa è la strada da cui ci sforziamo di discostarci.

Ma, in umore celebrativo, in questi stessi giorni il Ministro degli Esteri italiano è stato ricevuto a Washington da Blinken, il nuovo Segretario di Stato americano da poche settimane insediato in quella casona di Foggy Bottom che assomiglia tanto alla nostra Farnesina. Blinken è probabilmente il più europeo della lunga serie dei suoi predecessori - nel senso migliore dell’espressione - e non ha certo avuto bisogno di un briefing apposito per prepararsi a ricevere il collega italiano. Avrà certamente avuto a mente, senza suggerimenti, di cosa parlare col collega italiano.

Il comunicato ufficiale menziona, tra gli argomenti della conversazione, Russia e Ucraina cioè NATO; diritti umani cioè Cina; Libia cioè Mediterraneo. I primi due argomenti sono sostanzialmente riaffermazioni della lunga intesa comune, accertare che siamo sulla stessa pagina quando in un orizzonte vicino si intravede del torbido; il terzo riguarda uno scenario in movimento, e l’argomento va oltre l’identità di vedute. L’evoluzione della Libia deve puntare verso una sua stabilità poggiata su un largo consenso interno, capace di offrire al suo popolo la possibilità di uscire da un lungo ciclo di sventure (di cui ovviamente abbiamo la nostra parte di responsabilità) e iniziare un futuro di ricostruzione e sviluppo. Deposto ormai da una vita il manto coloniale, il nostro paese non può sfuggire, peraltro, al dovere di un ruolo attivo per la stabilizzazione e ricostruzione della Libia. Questo mi sembra sia compreso, giudicando dagli incontri in rapida successione a Tripoli di Di Maio e Draghi - prima del viaggio del leader libico Dabaiba ad Ankara, altra importante presenza non solo storica. Su ciascuno, a Washington si saranno sicuramente spesi appropriati “talking points”, e non solo parole di circostanza. Un’America che sta per chiudere finalmente la sua più lunga avventura militare sarà verosimilmente portata a cercare una condivisione di responsabilità nei focolai di tensione. Per l’Italia, che non ha ambizioni globali e ha limiti nella proiezione di autorità, al di fuori degli impegni dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea resta la strada del sostegno alle operazioni di pace - cui abbiamo sempre contribuito intra vires - e dell’assistenza ai paesi che ce ne hanno fatto richiesta, soprattutto sotto forma di addestramento, e l’orizzonte internazionale non è privo di nuvole, molte delle quali si accumulano sul continente africano, che è a distanza di gommone dalle nostre spiagge. È un argomento che non sfugge né a Roma né a Washington. In un recente forum con l’Ansa, l’Incaricato d'Affari presso l'ambasciata Usa in Italia, Thomas Smitham, ha infatti dichiarato: “La nostra posizione, comune con Roma, è che le forze straniere debbano lasciare il Paese", e ha aggiunto: "Tra poche settimane arriverà qui il nostro ambasciatore in Libia per avere un colloquio con l'Italia su questo tema così importante".

In un contesto meno fosco, la presenza a Washington del ministro italiano ha fornito anche l’occasione per incontrare Nancy Pelosi, Speaker della Camera e senza ombra di dubbio una delle personalità di maggiore spicco nella politica di questi anni. Pelosi è al secondo posto nella linea di successione dopo il Vice Presidente; a lei si sono riferiti per quattro anni gli oppositori del governo Trump. Che Nancy Pelosi, nata D’Alesandro, sia figlia di una famiglia originaria dell’Abruzzo ci ricorda che assieme al riconoscimento del Regno d’Italia, il 1861 fu anche l’inizio dell’emigrazione di massa italiana negli Stati Uniti, quando all’unificazione seguirono contraccolpi nell’economia. Partiti dal più basso scalino della società, questi immigrati hanno fatto molta strada, condividendo ogni aspetto dell’esperienza americana. Certi momenti di crisi lo mettono inaspettatamente in risalto: il Watergate (il complesso immobiliare di Washington, progettato da Luigi Moretti e costruito per la Società Generale Immobiliare) è il luogo dello scandalo che si concluse con le dimissioni di un Presidente. Quello scandalo, riconducibile alla patologica personalità di Nixon, ci introdusse alla figura del tenace giudice Sirica che conduceva con rigore il processo contro i suoi sicari, e a quella del deputato Rodino, Presidente della Commissione Giustizia della Camera che deliberò il suo impeachment. Allora faceva effetto.

Oggi la vita politica della nazione è intessuta di Pelosi, Giuliani, Cuomo, De Blasio, Pompeo, Fauci e via discorrendo. La First Lady è di origine italiana. Nel dopoguerra, sette dei Premi Nobel americani hanno radici nella penisola, da Enrico Fermi a Franco Modigliani (grazie alle leggi “per la protezione della razza”). È possibile oggi sorbire un prosecco, ordinare con discrete possibilità di successo una pizza margherita, seguire in televisione il percorso di gastronomia sociale italiana proposto dall’attore Stanley Tucci, guidare una Fiat nelle vie della città, indossare Prada, Gucci e quant’altro mentre vanno a ruba i romanzi di Elena Ferrante. È vero che il vecchio quartiere degli italiani di New York, attorno a Mulberry Street, non ne contiene più: in compenso ci sono degli ottimi ristoranti cinesi. A Philadelphia, dove sopravvivono dei quartieri italo-americani, le loro botteghe mostrano ancora - assieme alle caffettiere moka - anche le vecchie foto del Duce (come si usava a Mulberry Street). Vivono sempre le organizzazioni della collettività italo-americana, ma i loro partecipanti non sono più visti né al di sotto, né a lato della nazione americana, bensì come una delle identità che la compongono.

Il loro sdoganamento non è quello avvenuto a Staten Island, ma quello di molti anni dopo a Wall Street, Hollywood e Capitol Hill, nonché a Guadalcanal, Omaha Beach o Choisin in Corea. È una testimonianza di quanto debito reciproco abbiano accumulato gli Stati Uniti e la comunità dei nostri connazionali, e se oggi i governanti dei due paesi possono lavorare assieme con naturalezza ne siamo i beneficiari.


Franklin

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