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La crisi diplomatica franco-americana

Lettera da Parigi


La ripresa di fine estate risultava fino alla settimana scorsa dominata dall’intensificarsi dell’iniziativa politica, a sua volta concentrata, in tutti gli schieramenti, nella definizione di candidature e di posizionamenti strategici all’antivigilia dell’avvio formale della campagna presidenziale in autunno.

Sola eccezione rispetto all’attenzione monotematica dei media e degli osservatori per il tema elettorale era stata l’apertura del processo per la strage del Bataclan e degli attentati del 13 novembre 2015, con i suoi drammatici risvolti emotivi ed un coinvolgimento corale dell’opinione pubblica.

Bruscamente, ad oscurare persino la fiera rivendicazione dell’eliminazione dell’Emiro dello stato islamico nel Sahel ad opera delle forze francesi, ha fatto irruzione l’annuncio triangolare di Washington, Londra e Canberra, della nascita di AUKUS, la nuova Triplice del Pacifico di cui prima vittima collaterale è proprio Parigi: la Francia si è vista annullare la prospettiva del contratto “del secolo” per la fornitura all’Australia di sommergibili a propulsione convenzionale, che avrebbe potuto fruttare a Naval Group non meno di 50 miliardi di euro . Al di là di tale ragguardevole “lucro cessante”, Parigi deve incassare il danno emergente di un tramonto forse definitivo della sua aspirazione ad un ruolo di co-protagonista nello scacchiere indo-pacifico (dove rilevanti sono la sua presenza storica e territoriale ed i suoi relativi interessi diretti) e persino a quell’iniziativa di guida nella elaborazione di una strategia europea comune di difesa, proprio in coincidenza con il varo a Bruxelles della nuova “dottrina” del Consiglio per quel vitale comparto geo-politico. Con lo smacco ulteriore di una scelta australiana di sommergibili a propulsione nucleare, di cui pure Parigi detiene la necessaria tecnologia, ma per cui Canberra (sovvertendo la sua tradizionale linea ostile al nucleare) ha preferito volgersi agli Stati Uniti.

L’immediato richiamo a Parigi degli ambasciatori dagli Usa e dall'Australia rende l’idea dello sconcerto per il colpo subito, quantomeno inatteso se si pensa che l’ultimo contatto ufficiale fra Ministri della Difesa, francese ed australiano, risale a una settimana fa.

Il Ministro degli Esteri, il pur solitamente prudente JeanYves Le Drian, è giunto fino a definire un “tradimento” inqualificabile ai danni di un alleato la decisione capitanata da Washington e non dissimile a suo dire da una delle peggiori piroette degne di Donald Trump e del suo “America First”.

Ed è così che tutte le prime pagine dei quotidiani sono in questi giorni interamente occupate dalla “crisi diplomatica franco-americana” che monopolizza al tempo stesso i talk-shows di ogni tendenza politica, all’insegna dell’offesa fatta alla Francia, a mortificazione della sua grandeur.

Stavolta, tuttavia, forse grazie anche alla “salutare” lezione impartita dal dopo-Afghanistan, le riflessioni ed i commenti appaiono più sfaccettati e meglio approfonditi e si traducono, in alcuni casi, persino in esami di coscienza articolati, sino a qualche seppur isolato “mea culpa”.

Vi è chi rimette in discussione – ed è davvero una “prima” per gli “habitués” stranieri – la pertinenza del ruolo mondiale della Francia, ricordando come sempre più evanescenti risultino le fondamenta sulle quali si aggiudicò il suo piazzamento nel nuovo ordine europeo del dopo-guerra ed il seggio permanente in Consiglio di Sicurezza grazie anche ad una poco più che simbolica force de frappe nucleare. Non solo a sinistra, insomma, si sono levate voci che sostengono che il tempo di giocare in serie A è ormai scaduto e che è giunta l’ora di prendere atto di nuove classifiche fra le potenze mondiali che non contemplano più un ruolo da grande potenza per la “République”. Analisti e commentatori - sinora in maggioranza fuorviati dall’antiamericanismo che aveva predominato a fronte della crisi afgana – rilevano tardivamente che nuovi equilibri globali impongono di misurarsi con nuovi “players” imprescindibili, quali la Cina (come la mossa anglo-americana inequivocabilmente indica).

Nell’evocare l’esigenza di correre ai ripari – al di là dei ridondanti quanto vacui appelli dei sovranisti e di tutta la destra estrema per un impraticabile ritorno al passato splendore – anche alcuni euroscettici finiscono con l’ammettere il carattere urgente di una iniziativa dell’UE e almeno del rilancio di una riflessione attorno alla difesa comune europea.

La maggioranza dei commentatori, che non di rado utilizza questo primo inciampo dell’Esecutivo in campo internazionale per puntare il dito contro il Presidente, si limita a ricordare come si tratti di un vecchio ritornello oramai un po’ trito e di fatto impraticabile.

Molti di coloro che invocano più schiettamente un’avanzata concreta al riguardo, sono spesso prigionieri della stessa logica franco-centrica di sempre: si interrogano essenzialmente sul ruolo che potrebbe essere riservato a Parigi in una fase in cui si brancola nel buio, persino sul piano del metodo, sul futuro dell’asse con Berlino nel dopo Merkel e si deve prendere atto della brusca interruzione, per effetto della restaurata ed aggiornata solidarietà anglosassone, di un vagheggiato partenariato strategico di tipo industriale con il Regno Unito. I pochi che si ricordano quanto meno di menzionare la Spagna e l’Italia, lo fanno per lo più con l’usuale condiscendenza, sottolineando lo scarso peso specifico di partners potenziali considerati alla stregua di “Paesi museo” (sic).

Per fortuna, in questa cornice comincia ad emergere anche qualche più ragionevole e consapevole “mea culpa”: ed esempi quali la frustrante sorte di passate, preziose occasioni di collaborazione industriale naufragate in tutto o in parte per la gelosa e miope difesa del primario interesse nazionale e della specificità (ed asserita superiorità) francese in tutti i campi suonano certamente familiari alle orecchie dei responsabili di ieri e di oggi di Finmeccanica o Fincantieri.

Certo è che la vicenda dei sommergibili australiani ripropone, fra i temi della politica e della campagna elettorale, anche quello del ruolo internazionale della Francia e delle grandi strategie mondiali ed europee per il terzo millennio; un vaste programme che non può essere affrontato solo con il richiamo nostalgico allo splendore passato, il minaccioso catastrofismo dell’irreversibile declino, la rivendicazione pseudo-storicistica dei meriti del bonapartismo o del paleo-gollismo invocati da sovranisti e euroscettici . È al tempo stesso un argomento che supera il tradizionale clivage fra destra e sinistra e sul quale Macron, bersaglio di nuove critiche mirate, sarà chiamato a misurarsi: tanto più che il primo gennaio 2022 ha inizio la presidenza di turno francese dell’UE.


l’Abate Galiani

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