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La liberalizzazione degli scambi e il miracolo economico italiano

Trattare un argomento come “la liberalizzazione degli scambi” operata nel 1951 dall’allora Ministro del Commercio Estero, Ugo La Malfa, può, a prima vista, apparire l’esposizione di un semplice provvedimento tecnico-economico, se non lo si colloca nel contesto internazionale ed interno dell’epoca e, soprattutto, non si valutano bene gli effetti conseguiti.

Fu invece un provvedimento davvero coraggioso, al limite della temerarietà, che ebbe contrari oltre a tanti componenti dell’allora Governo centrista guidato da Alcide De Gasperi, anche un variegato fronte politico e sociale, un fronte i cui soggetti erano mossi da interessi diversi ma convergenti.

Nell’aprile 1952, pochi mesi dopo l’approvazione e l’entrata in vigore del provvedimento, nel corso della Fiera di Milano (vd. fotografia di seguito), il Ministro dell’Economia della Germania Ovest, Ludwig Erhard, che guidò la politica economica tedesca per quattordici anni prima di diventare dal 1963 al 1966 Cancelliere, incontrando Ugo La Malfa gli espresse la sua sorpresa per il provvedimento preso e – come ricorda lo stesso La Malfa nella Intervista sul non governo ad Alberto Ronchey (Laterza, 1977) – “mi domandò come avevo avuto il coraggio”.

La liberalizzazione degli scambi del 1951 risultò così essere determinante non solo sul piano economico, tanto da essere valutato uno degli assi strategici su cui si è basato “il miracolo economico italiano” i cui effetti si sono prodotti sino alla fine degli anni sessanta.

Come infatti ricorda Lorenzo Mechi (L’inizio dell’integrazione europea: Ugo La Malfa e la liberalizzazione degli scambi, in Annali FULM), “Un altro effetto positivo della liberalizzazione degli scambi del 1951 fu quello di conferire alla penisola un prestigio sia in ambito europeo che negli USA, riscontrabile in ben poche occasioni durante tutta la storia repubblicana.”

Un risultato di tutto rispetto per un Paese uscito sconfitto dalla tragica seconda guerra mondiale e dalla ventennale, infausta esperienza fascista solo pochi anni prima.


Nella fotografia (dall’Archivio Storico della Fiera di Milano): a sinistra Ugo La Malfa, al centro Ludwig Erhard


Premessa

Dopo la seconda guerra mondiale si realizzarono una serie di favorevoli condizioni, interne e soprattutto internazionali, che in Italia – oltre a realizzare un sistema politico-istituzionale democratico - contribuì ad avviare un profondo processo di sviluppo economico che consentì in pochi anni al Paese di uscire da secoli di arretratezza.

Il favorevole contesto internazionale in Occidente – dove era collocata l’Italia – si coniugò con le politiche economiche interne messe in campo da una classe dirigente di primo ordine che specie nel Governo centrista guidato da Alcide De Gasperi con Ministri del calibro di Ezio Vanoni alle Finanze e Ugo La Malfa al Commercio Estero e la presenza di autorevoli personalità – come Donato Menichella alla Banca d’Italia – provvide in pochi anni a precostituire le condizioni di quello che venne definito “il miracolo economico italiano”.

Proprio durante i Governi De Gasperi nel 1948-53 l’Italia entrò a far parte di organismi che favorirono l’integrazione europea, invisa da URSS e dalla sinistra italiana, fu istituita la Cassa del Mezzogiorno e realizzata la riforma agraria, furono utilizzate con appropriatezza le nuove fonti di energia come il metano in Val Padana, fu avviata la ristrutturazione del patrimonio siderurgico.

Risale anche a questo periodo “la liberalizzazione degli scambi”, oggetto del presente contributo, che rappresenta senza alcun dubbio uno degli architravi strategici su cui l’Italia ha potuto contare per uscire in pochi anni da secoli di arretratezza.


Il contesto internazionale

Nel luglio del 1944, con la Conferenza di Bretton Woods, i Paesi alleati, e in primis gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, definirono le linee essenziali dell’assetto del sistema economico internazionale del dopoguerra. Nel farlo, essi vollero evitare di ripetere l’errore drammatico commesso al termine della Prima Guerra Mondiale quando la scelta di imporre una pace cartaginese ai Paesi sconfitti ed in particolare alla Germania aveva posto le premesse all’avvento del nazismo e quindi alla stessa tragica seconda guerra mondiale.

Il protagonista indiscusso di questa nuova impostazione fu John Maynard Keynes, che era stato il rappresentante del Tesoro inglese nella Conferenza della pace di Parigi del 1919 e si era dimesso dall’incarico nel giugno di quell’anno in dissenso per l’impostazione del Trattato di pace che stava emergendo dalla Conferenza.

Keynes, che aveva pubblicato nel dicembre dello stesso anno un breve libro, poco più di un pamphlet, intitolato Le conseguenze economiche della pace (The Economic Consequences of the Peace) in cui aveva previsto l’esito catastrofico delle scelte compiute nella Conferenza, aveva delineato fin dal 1941 le linee di un assetto postbellico in grado di evitare il ripetersi degli errori di Versailles.

Questo assetto era basato sull’idea che bisognasse assicurare rapidamente il ritorno a una piena libertà degli scambi commerciali, aiutata a sua volta dall’adozione di un sistema di cambi fissi fra le monete sostenuta da due nuovi enti internazionali, il Fondo Monetario e la Banca mondiale, che avrebbero dovuto assistere i Paesi nel mantenere le condizioni di una piena libertà degli scambi internazionali.

Alla conferenza di Bretton Woods avevano preso parte 44 Paesi alleati, fra cui prominente l’Unione Sovietica che era il principale alleato degli Stati Uniti e dell’Inghilterra nella lotta contro il nazismo. Quando invece, nel 1946, si avviò il dopoguerra e si mise concretamente in opera il sistema delineato a Bretton Woods, il clima internazionale era profondamente cambiato.

L’alleanza con l’Unione Sovietica era ormai venuta meno e il mondo si stava dividendo in due blocchi fra loro contrapposti. George Kennan, ambasciatore americano a Mosca aveva delineato in un lungo telegramma al proprio Governo la necessità di una strategia di contenimento dell’espansionismo dell’Unione Sovietica.

Negli stessi mesi, in un discorso pronunciato a Fulton in Missouri, Winston Churchill aveva denunciato che una rigida cortina di ferro “da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico” era scesa a separare fra loro le antiche capitali dell’Europa.

Un anno dopo, il 5 luglio 1947, il Segretario di Stato americano George C. Marshall delineò, in un breve discorso tenuto all’Università di Harvard, un piano per sostenere la ricostruzione dell’Europa. L’allora Segretario di Stato affermò che i Paesi europei, risultati sia vincitori che sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, avrebbero avuto bisogno di ingenti aiuti per almeno un quadriennio, al fine di evitare disastrose conseguenze sul piano economico, sociale e financo politico.

Le risorse del piano venivano offerte a tutti i Paesi europei, anche a quelli del blocco sovietico, ma quando prevedibilmente l’aiuto venne rifiutato da Mosca, il Piano Marshall divenne lo schema per consolidare le economie dei Paesi dell’Europa occidentale e aiutarli così a resistere alla pressione sovietica che poteva avvalersi in molti Paesi, a partire dall’Italia e dalla Francia, di grandi ed organizzati partiti comunisti.

In quattro anni – sino al 1951 quando si concluse anche a causa dell’intervenuta guerra in Corea – il Piano Marshall investì oltre 14 miliardi di dollari (al valore dell’epoca) avendo anche come obiettivo l’avvio dell’integrazione europea, dando così origine all’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE).

Nonostante le finalità del Piano Marshall fossero quelle di avviare una profonda trasformazione del sistema economico e produttivo dei Paesi europei, questi – stante lo stato di estremo bisogno – utilizzarono i fondi per beni di prima necessità e solo in parte per macchinari e mezzi di produzione.

L’Italia fu il quarto Paese beneficiario degli aiuti del Piano Marshall con un totale di 1204 milioni di dollari, dopo Gran Bretagna (3297), Francia (2296) e Germania Ovest (1448).

Con l’aiuto del piano Marshall, i Paesi europei superarono all’inizio degli anni cinquanta l’indice di produzione prebellico, allentando le misure di austerità, migliorando le condizioni di vita delle popolazioni e consolidando le strutture democratiche. Il successo del piano – ed anche una accorta propaganda – consentirono la diffusione, anche in Paesi come l’Italia, di valori tipici del capitalismo come lo spirito imprenditoriale, la concorrenza, l’efficienza e la stessa libera impresa.

Nel dopoguerra, l’Italia fu ammessa al Fondo Monetario Internazionale (FMI) ed alla Banca Mondiale nel 1946; nel 1947 fu tra i 23 Paesi che diedero vita agli accordi GATT (General Agreement on Tariffs and Trade).

Poi (vd. Tesi su Come l’economia italiana si apre al mondo di E. Zema, relatore Prof. G. Farese, AA 2017/18 LUISS), nel 1949 aderì all’OECE (Organizzazione Europea di Cooperazione Economica) e nel 1950 all’Unione Europea dei Pagamenti, nel 1953 alla CECA (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio) tra i sei Paesi (Benelux – Francia – Germania e Italia) che nel 1957 stipularono il Trattato di Roma che ha dato vita al Mercato Comune Europeo antesignano, come noto, dell’attuale Unione Europea.


La liberalizzazione degli scambi

Nella citata Intervista sul non governo, lo statista repubblicano definì il “centrismo” - i governi formati da DC, PLI, PSLI e PRI con Alcide De Gasperi Presidente del Consiglio che dal 1948 al 1953 governarono il Paese - “il periodo più costruttivo della vita italiana” che pose le fondamenta, come già evidenziato, per quello che giustamente fu definito “il boom economico”.

Contribuirono a tale processo, secondo Ugo La Malfa: “Anzitutto la siderurgia rinnovata, quella siderurgia che era stata la palla di piombo dello sviluppo industriale in Italia. Poi la scoperta e l’uso delle risorse del metano in grande quantità. Poi si ebbe la Cassa del Mezzogiorno – continua La Malfa – ricordando l’esperienza americana della Tennessee Valley. E poi la riforma agraria oltre all’inizio della riforma tributaria di Vanoni”.

Ricordando la figura del Governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella - non senza pudore nel parlare di un proprio provvedimento - Ugo La Malfa sottolinea poi l’importanza della misura presa nel 1951 come Ministro del Commercio Estero: la liberalizzazione degli scambi.

E lo stesso Ugo La Malfa specifica: “Fui mosso da due convincimenti: la visione meridionalistica, ossia l’idea di stimolare con la concorrenza il sistema economico, favorendo il Mezzogiorno, e una certa intuizione della capacità nazionale di andare sui mercati e sprigionare le energie compresse. Ma ci fu anche una terza ragione. La mia esperienza nell’amministrare i contingenti (dell’import) mi aveva dato subito l’impressione che lì si annidava una degenerazione”.

La Malfa si riferisce alla complessa macchina amministrativa richiesta dai controlli sugli scambi commerciali che assoggettava sia le importazioni che le esportazioni ad autorizzazioni amministrative, con il rischio non solo di inefficienza e ritardi, ma anche di abuso e di corruzione. La Malfa ricorda che quando divenne Ministro per il Commercio estero, nel 1951, venne accolto il primo giorno da un’imponente mole di permessi di importazione e di esportazione che il Ministro avrebbe dovuto firmare.

La sua prima decisione fu di attribuire la responsabilità della firma ai Direttori Generali sulla base di criteri di carattere generale che egli stesso aveva stabilito nella sua responsabilità di ministro. Osservò infatti che “Il potere discrezionale con cui l’autorità politica governa, il richiamare a sé tutte le richieste di concessioni, costituisce un cattivo esercizio della potestà di governo”.

Con questi motivi – conclude Ugo La Malfa – decisi di abolire i contingenti, di aprire le frontiere al libero commercio e di abbassare i dazi del 10%. La liberalizzazione operò per oltre il 99% delle nostre importazioni, con le sole eccezioni del vino e delle automobili”, oltre all’aumento del fondo per l’acquisto di scorte di Stato e approvvigionamento di grandi quantità di rame, gomma e stagno da Paesi dell’Area UEP.

Ugo La Malfa, in un articolo sulla rivista Nord e Sud del dicembre 1954, definì la riforma agraria, la Cassa del Mezzogiorno e la stessa liberalizzazione degli scambi, provvedimenti di portata “rivoluzionaria”.

La liberalizzazione degli scambi non fu una operazione senza ostacoli e contrasti.

Come specificato da Lorenzo Mechi nel citato articolo degli Annali FULM, “L’Italia aveva seguito tradizionalmente una politica commerciale fortemente protezionista: accanto alla vasta mole di restrizioni quantitative alle importazioni, presenti a vari livelli in tutti i Paesi, essa imponeva mediamente una tariffa doganale estremamente elevata. Ciò era dovuto in parte alle pressioni di alcune categorie di produttori interni, in particolare agricoltori, automobilistici e siderurgia privata, in parte retaggio dell’autarchia fascista e delle norme fortemente restrittive ereditate. Nonostante la partecipazione ai rounds del GATT e alle decisioni dell’incontro di Annency del 1949 che stabilì l’abbassamento delle tariffe su un vasto numero di merci, i dazi sulle importazioni italiane continuarono ad essere, insieme a quelli francesi, i più alti in Europa con un livello medio del 17,6% così da suscitare le ripetute proteste dei partners commerciali”.

Secondo quanto riporta sempre Lorenzo Mechi, nel Governo dichiararono la loro contrarietà alla liberalizzazione degli scambi i Ministri dell’Industria (Giuseppe Togni), dell’Agricoltura (Amintore Fanfani), degli Interni (Mario Scelba), del Lavoro (Leopoldo Rubinacci), mentre a favore, oltre al Presidente del Consiglio (Alcide De Gasperi), si dichiarò il Ministro delle Finanze (Ezio Vanoni) ed anche il Governatore di Banca d’Italia, Donato Menichella.

Le sinistre (PCI e PSI) si dichiararono contrarie, sensibili com’erano, all’epoca, alla posizione URSS decisamente contraria ad ogni forma di cooperazione ed integrazione europea, così come la CGIL mentre la CISL si dichiarò favorevole.

Tra le confederazioni si dichiararono contrarie, Coldiretti, Confagricoltura, Confindustria (anche se il Presidente Costa non era contrario) mentre a favore era la Confcommercio.

Ricorda Ugo La Malfa, nell’intervista ad Alberto Ronchey: “Devo dire che il Presidente della Confindustria non si oppose. Costa era un genovese che aveva mentalità liberistica. Mi contrastarono invece i gruppi milanesi con una battaglia violentissima. Mi definirono un pazzo che distruggeva l’economia italiana, che esponeva l’industria alla concorrenza distruttiva dei tedeschi e degli inglesi. Mi contrastò la CGIL. Invece Vanoni mi sostenne. Avevo preparato il mio piano e ne avevo informato De Gasperi, Vanoni e Menichella. Portammo la questione in Consiglio dei Ministri e tutto fu deciso in pochi minuti. Questo per dire che certe riforme fondamentali non hanno bisogno di anni di discussione. Va ricordato che fummo la prima nazione a fare questo.”

A livello internazionale, il provvedimento preso da Ugo La Malfa riscontrò il favore incondizionato degli USA che peraltro rimproveravano gli altri Paesi europei – in testa Gran Bretagna e Francia – di non seguire l’esempio italiano, ripristinando anzi i contingenti all’import che procurarono non pochi problemi all’Italia sino al 1953/54 quando si verificarono alcune aperture.

Il Ministro del Commercio si dedicò così ad una incessante opera di comunicazione sul provvedimento anche nelle sedi più ostili e contrarie. Il 17 gennaio 1952 partecipò infatti all’assemblea annuale di Confindustria, intervenendo subito dopo la relazione del Presidente Costa, come riportato a pag. 727 di Ugo La Malfa, Scritti 1925 – 1953, Mondadori editore.

Con l’attenuazione delle misure protezionistiche anche negli altri Paesi, la bilancia dei pagamenti italiana iniziò a migliorare e quindi anche le critiche alla liberalizzazione degli scambi vennero meno.

Come ricorda Lorenzo Mechi :“Il 12 marzo 1953, quando ancora le restrizioni straniere erano pressoché intatte, la Giunta Esecutiva Confindustria, con somma soddisfazione del Ministro del Commercio estero, si dichiarava favorevole al mantenimento delle liberalizzazioni e contraria ad una politica di ritorsione tariffaria”.

“La rapida crescita economica dell’Europa Occidentale – continua Mechi – i bassi livelli salariali e l’alto tasso di produttività dell’industria italiana, avrebbero portato, di lì a pochi anni, le esportazioni della penisola ad un vero e proprio boom con il settore meccanico e tessile che subentrarono al tessile portando la propria quota di export in area OECE dal 15,1% al 33%. Tale successo è ben dimostrato fra l’altro dal repentino cambiamento avvenuto nell’orientamento di Confindustria che la spinsero nel 1957 ad accogliere con netto favore la creazione del MEC”.

“Si può dunque affermare – conclude Lorenzo Mechi – che le liberalizzazioni di Ugo La Malfa, contribuendo al rilancio del commercio europeo, abbiano avuto anche un ruolo di stimolo per quel processo di sviluppo che portò l’Italia, nel giro di pochi anni nel gruppo dei Paesi più industrializzati dell’Occidente. Per concludere, conviene riportare quanto dichiarato, a distanza di anni, da due Governatori della Banca Centrale: alla valutazione di Paolo Baffi che nel 1988 avrebbe definito “l’integrazione internazionale economica cui egli diede coraggiosamente inizio con la liberalizzazione degli scambi” come l’acquisizione più sicura della politica di La Malfa, fa eco il giudizio di Guido Carli secondo il quale “quella del primo novembre 1951 fu una scelta storica, che forse resta il contributo più importante e duraturo di La Malfa al Paese”.

In verità, permettendoci l’ardire di correggere sia Paolo Baffi, sia Guido Carli, oltre alla liberalizzazione degli scambi, altri strategici contributi di Ugo La Malfa sul piano economico avvennero nel corso della sua vita, soprattutto con la presentazione della Nota Aggiuntiva al Bilancio dello Stato 1961 di cui abbiamo già trattato in questa sede, ma anche l’adesione al SME di cui ci riproponiamo di trattare in futuro.


Maurizio Troiani

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