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Fondo Investimenti e Occupazione: l’ulteriore occasione mancata. Con intervista a Giorgio La Malfa

Il nostro Paese è riuscito nel dopoguerra non solo a tornare alla democrazia, a provvedere alla ricostruzione politica, istituzionale, economica e sociale dopo l’infausto ventennio fascista e la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, ma anche a porre le basi per quello che poi fu definito “il miracolo economico”.


Concorsero al raggiungimento di tale obiettivo un insieme di fattori endogeni ed esogeni.

A livello internazionale gli Accordi di Bretton Woods con il sistema di cambi fissi e le conseguenti politiche economiche di stampo keynesiano oltre alla creazione di organismi economici e politici sovranazionali furono i presupposti su cui si basò per un trentennio quella che fu definita la “golden age” dell’economia.


A livello nazionale, una classe dirigente lungimirante e di alto livello predispose strumenti appropriati quali la Cassa per il Mezzogiorno e provvedimenti coraggiosi come la riforma agraria, se non temerari come la liberalizzazione degli scambi, adottata nel 1951 dall’allora Ministro del Commercio Estero Ugo La Malfa che favorì lo sviluppo di grandi capacità imprenditoriali dopo l’infausto periodo del protezionismo e del corporativismo.

Quando però con la Nota Aggiuntiva alla Relazione Generale sulla situazione economica del Paese per il 1961, presentata al Parlamento il 22 maggio 1962 dallo stesso Ugo La Malfa in qualità di Ministro del Bilancio, si pose il problema di consolidare nel tempo i saggi di incremento del PIL e, soprattutto, di risolvere i problemi strutturali come il divario Nord-Sud, la classe dirigente del Paese - nel frattempo modificata rispetto al decennio precedente - mancò la grande occasione, preferendo disperdere in mille rivoli il grande dividendo del miracolo economico, rinunciando così di fatto ad una politica di programmazione economica.

Di quella “non scelta” ne paghiamo ancor oggi le negative conseguenze, pur rimanendo tuttora valida la sua impostazione, come argomentato nell’editoriale de Il Commento Politico nella ricorrenza del 60° anniversario della Nota.


Vent’anni dopo, nel 1982, un altro Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, un altro repubblicano, un altro La Malfa – Giorgio - in un periodo di forte contrasto alla dilatazione della spesa pubblica tentò di introdurre criteri “rivoluzionari” nella destinazione delle risorse per rendere efficaci ed efficienti gli investimenti pubblici, sottraendoli alle logiche spartitorie e clientelari e quindi all’inefficacia degli interventi e allo sperpero del pubblico denaro.


Il contesto di riferimento politico, economico e sociale in cui maturò l’esperienza del Fondo per gli Investimenti e l’Occupazioni (FIO) era però profondamento modificato in pejus rispetto al contesto della Nota Aggiuntiva ed ancora una volta la classe dirigente mancò l’ulteriore occasione, anche se si svilupparono in quegli anni le ambiziose esperienze dei due Governi Spadolini, tanto ambiziose negli obiettivi quanto riscontrate da scarsi risultati, nonostante fossero largamente premiate alle elezioni politiche del 1983 quando il PRI raggiunse il 5,08% alla Camera dei Deputati con 29 seggi ed il 4,67% al Senato con 10 seggi, rappresentanza mai raggiunta prima.


I Governi Spadolini

Giovanni Spadolini, eletto al Senato come indipendente nelle liste repubblicane nel 1972, era succeduto alla segreteria PRI nel 1979 dopo la morte di Ugo La Malfa.


Fu chiamato dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, a formare il Governo in un contesto di profonda crisi sul piano morale, istituzionale, politico ma anche economico e sociale dopo le dimissioni del Governo Forlani a seguito della scoperta degli elenchi della Loggia P2 e la sua ramificata infiltrazione nei gangli dello Stato, mentre il precedente Governo Cossiga aveva assistito inerme all’attentato alla Stazione di Bologna dell’agosto e al terremoto in Irpinia del novembre 1980.

Il quadro politico, dopo la morte di Aldo Moro e Ugo La Malfa e la fine della breve esperienza della solidarietà nazionale con il PCI che colse l’occasione dell’adesione al Sistema Monetario Europeo (SME) per uscire dalla maggioranza di Governo, trovò nel “preambolo”, documento votato nel Congresso DC del febbraio 1980, nuovi equilibri politici basati sul rapporto DC e PSI.


Sul piano sociale, il lungo sciopero alla FIAT e la marcia dei quarantamila capitanata da Luigi Arisio decretò l’inizio del tramonto del potere sindacale con la sconfitta dell’ala massimalista, in un momento di grande trasformazione dell’industria manifatturiera, mentre ancora imperversava il terrorismo di sinistra e di destra che non esitava a mietere vittime per perseguire i propri folli disegni, in una spietata concorrenza fra le varie formazioni e sigle.

Sul piano economico, il decennio precedente aveva letteralmente frantumato il contesto di riferimento che aveva favorito il “miracolo economico” italiano.


Il 15 agosto 1971 il Presidente USA, Richard Nixon, dichiarò l’inconvertibilità del dollaro, segnando la fine del sistema di cambi fissi degli Accordi di Bretton Woods. La grande inflazione degli anni successivi e il successo della controffensiva monetarista guidata da Milton Friedmann misero in crisi le politiche economiche di stampo keynesiano.


Le due crisi petrolifere del 1973 e del 1979 con il conseguente aumento esponenziale dei costi dell’energia e delle materie prime, insieme all’aumento della spesa pubblica anche a seguito delle grandi riforme del sistema di welfare degli anni settanta, provocarono una decisa impennata del tasso di inflazione - e del relativo sistema di indicizzazione dei salari e degli stipendi - che durante gli anni 1981-82 (Governi Spadolini) si attestò intorno al 17% annuo, mentre il rapporto fra PIL e debito pubblico cominciò proprio in quegli anni a decollare vistosamente, con una spesa pubblica in vertiginoso aumento a fronte di tassi di crescita inadeguati.


Nonostante tale contesto, Giovanni Spadolini – segretario di un PRI che aveva circa il 3% dei voti – accettò l’incarico conferitogli dal Presidente Pertini per dar vita ad un Governo pentapartito formato da DC, PSI, PRI, PSDI e PLI archiviando definitivamente la parentesi delle maggioranze di solidarietà nazionale.


In una Tribuna Politica del luglio 1982, Giovanni Spadolini affermò che l’incarico a Presidente del Consiglio gli era stato conferito “in quanto rappresentante di una tradizione politica e culturale che poteva rappresentare un punto di equilibrio e di garanzia democratica in una situazione molto difficile”.


Dotato di cultura ed intelligenza straordinarie, Giovanni Spadolini ha sempre bruciato le tappe nei vari campi in cui ha cimentato le sue vocazioni di storico, giornalista e politico.

A 25 anni Professore di Storia Moderna e a 35 Professore di Storia Contemporanea. Direttore del Resto del Carlino a 30 anni e del Corriere della sera a 44 anni. A 47 anni diventa senatore come indipendente nelle liste PRI e tre anni dopo il suo debutto in politica diventa Ministro dei Beni Culturali e a 54 anni Ministro della Pubblica Istruzione.


Il 26 marzo 1979 muore Ugo La Malfa e nel settembre Giovanni Spadolini, dopo solo sette anni dal suo ingresso in politica, diventa Segretario Nazionale PRI.


Lo Spadolini I si insedia il 28 giugno 1981 sino al 23 agosto 1982, quando subentrò lo Spadolini II (governo fotocopia) che arriva sino al 1˚ dicembre 1982.


I due Governi Spadolini ebbero alla base ambiziosi programmi, resi anche necessari dall’aggravarsi delle crisi che avevano investito l’Italia.


Il primo Governo si propose di far fronte a quattro gravi emergenze che il Paese si trovava ad affrontare: la moralizzazione della vita pubblica con lo scioglimento della Loggia P2 e il contrasto alla corruzione; la lotta al terrorismo di destra e sinistra; l’emergenza economica con il tentativo di introdurre la programmazione e la ricerca di un patto sociale; l’emergenza internazionale con la vicenda delle Falkland e la guerra Argentina-Gran Bretagna.


Lo Spadolini 1 cadde nell’estate del 1982 a causa di una trentina di franchi tiratori che bocciarono la riconversione in legge di un decreto del Ministro socialista Rino Formica sulle imposte per i prodotti petroliferi, vicenda che manifestava plasticamente lo scontro fra democristiani e socialisti all’interno della maggioranza rispetto al quale nulla poteva la volontà di mediazione di Giovanni Spadolini. Una crisi che successivamente Spadolini imputò al “malessere istituzionale” che pervadeva la politica e che trovava nel PSI di Craxi l’intenzione di procedere al varo di una “grande riforma” che coinvolgesse l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e il rafforzamento dell’Esecutivo con l’introduzione della sfiducia costruttiva.


Nel formare il suo secondo Governo, Spadolini oppose alla grande riforma craxiana, un “decalogo” di proposte istituzionali, “documento sui temi istituzionali articolato in dieci punti pari ad altrettanti obiettivi da perseguire al fine di rendere efficiente il sistema democratico italiano” come ebbe a scrivere A. Manzella su La Nuova Antologia nel 2002, decalogo che intendeva tornare all’attuazione piena del dettato costituzionale.

In realtà il decalogo non vide mai la luce, poiché lo scontro fra DC e PSI si accentuò ulteriormente al punto che, durante un viaggio negli USA del Presidente del Consiglio, il Ministro DC del Tesoro, Beniamino Andreatta e il Ministro delle Finanze PSI, Rino Formica, si cimentarono in quella che fu definita “la lite fra comari” inducendo dopo soli quattro mesi alle dimissioni lo Spadolini II.


Così, per la seconda volta, il tentativo proclamato da Giovanni Spadolini di sottrarre ai partiti i destini del Governo naufragò. Ciò fu dovuto al fatto che il peso politico che lo stesso Spadolini attraverso il PRI poteva esercitare nei confronti degli altri partiti, era limitato dai rapporti di forza parlamentari che condizionavano l’azione del Presidente del Consiglio.


Nel 2020, durante la pandemia, in una delle conversazioni registrate con suo nipote Tommaso, Giorgio La Malfa si è soffermato su Giovanni Spadolini e sui due governi da lui guidati. Sul piano personale, La Malfa ha rivelato alcuni tratti non ben conosciuti della personalità di Spadolini che ne accompagnavano le grandi qualità intellettuali: una certa freddezza che a volte sfiorava il cinismo, talvolta una certa cattiveria.

La Malfa ha sostenuto che, in fondo, la base del Partito Repubblicano percepiva questi limiti caratteriali e tributava a Spadolini un riconoscimento inferiore a quello che questi considerava in qualche modo dovuto alla luce dei grandi risultati che sul piano elettorale aveva portato al partito.

In realtà, negli otto anni della sua segreteria Spadolini non riuscì mai a infiammare il cuore dei repubblicani nella stessa misura in cui li aveva infiammati Ugo La Malfa prima di lui e Giorgio La Malfa dopo di lui.


Forse il partito non gli riconosceva i tratti culturali fondanti del repubblicanesimo-azionista di cui era permeato con le sue peculiari intransigenze di stampo lamalfiano, un partito che, pur attestandosi solo intorno al 3% dei consensi, rappresentava – per dirla con Togliatti – un “piccolo partito di massa” per le sue ramificazioni storiche nelle organizzazioni sindacali e nel movimento cooperativo, nella presenza nelle professioni liberali, nell’imprenditoria progressista e nella cultura, ma anche la sua modernità per l’impronta keynesiana portata dall’ingresso di Ugo La Malfa e dall’autorevolezza delle posizioni e delle battaglie condotte a difesa dell’interesse generale del Paese.

O forse, semplicemente, percepiva quella freddezza di carattere e quel distacco fra le sue parole e i suoi sentimenti di cui Spadolini non riuscì mai a liberarsi.

Dopo l’esperienza alla guida dei due Governi nel 1981/82, Giovanni Spadolini fu Ministro della Difesa nei due Governi Craxi e dal 1987 al 2004 Presidente del Senato.


Il Fondo per gli Investimenti e l’Occupazione

L’Enciclopedia Treccani scrive che Il Fondo per gli Investimenti e l’Occupazione (FIO) “ fu creato nel 1982 con lo scopo di sostenere gli investimenti pubblici soprattutto tramite l’analisi di progetti di rapida esecuzione e di importante impatto sociale, in una situazione di restrizioni della spesa pubblica. Nel 1999, con il regolamento concernente il riordino delle competenze del CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) è stata attribuita alle amministrazioni centrali e regionali destinatarie dei finanziamenti ogni residua competenza per il completamento degli interventi e per la definizione dei rapporti relativi ai progetti finanziati a carico del FIO”.


Ancorché corretto quanto riportato dalla Treccani, non mette in luce la validità dell’impianto del Fondo ed il suo dirompente carattere innovativo relativo alle regole di funzionamento specie in rapporto al delicato rapporto fra “politica” e “amministrazione”.


Né maggior giustizia viene dedicata al FIO dal web che al Fondo riserva scarsissime e incomplete citazioni, nonostante il tuttora valido impianto che – come riporta l’editoriale de Il Commento Politico del 23 maggio 2020 - poteva essere preso a modello ai tempi del Governo Conte 2 agli albori del Recovery Fund ed a maggior ragione invocato successivamente più volte quando con il Governo Draghi si è passati alla definizione degli schemi di attuazione dei progetti dello stesso Recovery Fund.


La storia dell’intervento pubblico in Economia ha conosciuto nel nostro Paese, soprattutto nel dopoguerra, pagine nobilissime e di grande impatto economico e sociale con la creazione della Cassa del Mezzogiorno da un lato ed il Sistema delle Partecipazioni Statali dall’altro, sistema fatto oggetto nei suoi anni migliori di attenzione e studio da parte di altri Paesi che presero in esame il “modello IRI” come una delle forme possibili dell’intervento pubblico in economia.


Negli anni successivi, però, l’intervento pubblico perse progressivamente la sua spinta propulsiva, esaurendo la sua efficienza ed efficacia, non riuscendo ad evitare sperperi di denaro pubblico a fronte di iniziative intese soprattutto a raccogliere facile consenso da parte politica, sindacale e imprenditoriale. Vale quindi la pena soffermarsi, sia pur non esaustivamente come sarebbe necessario, su questa ulteriore “occasione mancata” per il Paese che non solo idealmente segue l’altra storica “occasione mancata” della Nota Aggiuntiva del 1962.


Durante i due Governi Spadolini, maturò infatti da parte di Giorgio La Malfa, Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica, il progetto di costituire un fondo destinato agli investimenti e all’occupazione, progetto in controtendenza rispetto alla volontà – espressa in particolare dall’allora Ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta – di, non solo contenere, ma ridurre considerevolmente la spesa pubblica a fronte dei dati macroeconomici estremamente negativi.


Nel predisporre regole e funzionamento del FIO, Giorgio La Malfa riprese la tradizionale posizione repubblicana circa la separazione fra ambiti della decisione politica e ambiti della decisione amministrativa di cui Ugo La Malfa si era fatto interprete nel 1951 come ministro del Commercio Estero, prima di procedere alla liberalizzazione degli scambi, nel fissare i criteri in base ai quali la burocrazia ministeriale avrebbe dovuto esercitare i propri poteri discrezionali nella concessione dei permessi di importazione.


Come scritto nel già citato Memorabilia sulla liberalizzazione degli scambi, lo stesso Ugo La Malfa aveva così motivato la sua decisione di procedere alla liberalizzazione degli scambi: “Fui mosso da due convincimenti: la visione meridionalistica, ossia l’idea di stimolare con la concorrenza il sistema economico, favorendo il Mezzogiorno, e una certa intuizione della capacità nazionale di andare sui mercati e sprigionare le energie compresse. Ma ci fu anche una terza ragione. La mia esperienza nell’amministrare i contingenti (dell’import) mi aveva dato subito l’impressione che lì si annidava una degenerazione”.


Ugo La Malfa si riferisce alla complessa macchina amministrativa richiesta dai controlli sugli scambi commerciali che assoggettava sia le importazioni che le esportazioni ad autorizzazioni amministrative, con il rischio non solo di inefficienza e ritardi, ma anche di abuso e di corruzione. La Malfa ricorda che quando divenne Ministro per il Commercio estero, nel 1951, fu accolto il primo giorno da un’imponente mole di permessi di importazione e di esportazione che il Ministro avrebbe dovuto firmare.


La sua prima decisione fu di attribuire la responsabilità della firma ai Direttori Generali sulla base di criteri di carattere generale che egli stesso aveva stabilito nella sua responsabilità di ministro.

Il rapporto fra “politica” e “amministrazione” che ha informato prima la liberalizzazione degli scambi di Ugo La Malfa e poi il FIO di Giorgio La Malfa che tentavano di circoscrivere la discrezionalità delle scelte si rifacevano agli insegnamenti di Silvio Spaventa e della Destra Storica post unitaria («la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative» (Giustizia nell'amministrazione, 1880, in La politica della Destra. Scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croce, 1910, p. 78).


La Legge istitutiva del FIO e le sue regole di funzionamento fu disincagliata grazie all’intervento risolutore di Amintore Fanfani, allora Presidente del Senato, che ne comprese l’importanza ed il Fondo fu dotato di 3.000 miliardi lire per il primo anno.



INTERVISTA SUL FIO A GIORGIO LA MALFA

Giorgio La Malfa è stato Ministro del Bilancio e della Programmazione Economica nei Governi Cossiga II e Forlani, ma solo durante i Governi Spadolini avviò l’esperienza del Fondo per gli Investimenti e l’Occupazione. E di tale esperienza ne abbiamo parlato con il diretto interessato.


- Le condizioni di contesto in cui nacque il FIO non erano certamente quelle ottimali.

“I dati economici con un alto tasso di inflazione e la dilatazione della spesa pubblica a fronte di saggi di crescita molto scarsi, imponevano in quegli anni una politica di rigore che trovò nel Ministro del Tesoro Andreatta un solerte esecutore. Andreatta sosteneva che non c’erano margini per la spesa in debito, neanche per “il debito buono” come è stata definita da Mario Draghi la spesa destinata agli investimenti e all’occupazione. Io non ero convinto che questa impostazione fosse giusta. Bisognava esercitare il massimo rigore nella limitazione delle spese correnti. Anzi su questo bisognava essere più rigidi di quando non fossero la DC e il PSI, ma bisognava salvare uno spazio per le spese di investimenti, per il debito ‘buono’ si direbbe oggi. Per questo insistetti a lungo sulla necessità di favorire una spesa per investimenti. Riuscimmo così, dopo molte insistenze e molte battaglie, a far approvare la legge istitutiva del Fondo e a dotarlo per il primo anno di 3.000 miliardi di lire, risorse abbastanza modeste ma comunque significative per il decollo.

Dal punto di vista politico, il Ministero del Bilancio - che aveva assunto la denominazione anche “e della Programmazione Economica” nel 1962 al tempo della famosa Nota Aggiuntiva e dell’incarico a mio padre – aveva un forte prestigio politico, ma non disponeva di risorse proprie come il Tesoro e come i vari ministeri di spesa. Io insistetti che il campo degli investimenti fosse un campo nel quale il ministero del Bilancio avesse titolo per chiedere di esercitare una propria azione. La resistenza di Andreatta fu in parte determinata dalla sua visione che in quel momento lo rendeva contrario alla spesa pubblica in generale; ma in parte fu determinata dal desiderio di non attribuire al Bilancio un proprio ambito di spesa.”


- Come nacque il contrasto sul rapporto fra politica e amministrazione che accompagnò la nascita e in seguito decretò la fine del FIO?

“Nacque dal fatto che nella creazione del Fondo e nella definizione delle regole della sua amministrazione mi sembrava indispensabile tutelare molteplici esigenze. Da un lato io difendevo l’idea che fosse necessario garantire un certo volume di spesa pubblica per investimenti anche in situazioni di bilancio che imponevano una limitazione delle spese pubbliche. Ma vi poteva essere il rischio che venissero presentate come spese di investimento quelle che in realtà erano pure e semplici spese correnti. Dunque, per evitare queste situazioni, bisognava fissare criteri di valutazione rigorosi dei progetti sottoposti al Ministero del Bilancio tali da garantirne l’efficacia. Nello stesso tempo, sapendo quanto gli uomini politici tendevano (e tendono) a farsi portatori di sostegno di esigenze correnti, bisognava limitare la possibilità della politica di assegnare questi fondi e dare alla pubblica amministrazione un ruolo sostanziale. Ma, ancora, non si poteva escludere la politica dal suo diritto-dovere di fissare gli indirizzi generali dell’azione di governo. Le regole del FIO che mettemmo a punto - Paolo Savona, che era il segretario generale della programmazione economica del Ministero del Bilancio, ed io - miravano a garantire queste diverse esigenze. Il fatto che abbiano suscitato tanti contrasti è la prova che andavano nella direzione giusta e individuavano i veri nodi del problema. “


- Quali furono le regole?

“Stabilimmo che alla politica venisse demandato il diritto-dovere di stabilire le priorità da seguire nella valutazione dei progetti di investimento provenienti dagli enti centrali e periferici (Ministeri e Regioni) dello Stato. Ad un Nucleo di Valutazione Tecnica, venne affidato il compito di individuare, traducendo fedelmente le priorità stabilite in sede politica attraverso l’analisi dei costi e dei benefici, quali dei progetti fossero da finanziare e quali da scartare.

Si trattava di mutuare esperienze sviluppate in seno alla Banca Mondiale nella valutazione degli investimenti e, per farlo, reclutammo alcuni tecnici di primo piano – come Enzo Grilli, posto a capo del Nucleo di valutazione, e Giuseppe Pennisi - che tornarono in Italia proprio dalla Banca per avviare e consolidare l’esperienza del FIO”.


- La “politica” era consapevole dell’innovazione apportata con il FIO?

“Assolutamente sì. Individuammo nel CIPE, il Comitato Interministeriale per la programmazione economica, la sede nella quale la “politica” avrebbe fissato i criteri di valutazione che sarebbero stati poi applicati dal Nucleo per la Valutazione degli Investimenti nello scegliere quali progetti accogliere e quali scartare. Dissi molto chiaramente che al CIPE spettava la definizione della griglia delle priorità e dei parametri di riferimento (occupazione, Mezzogiorno, export, eccetera) sulle cui basi si sarebbero valutati i vari progetti e portai al Comitato una proposta relativa ai criteri di valutazione sulla quale chiesi che il CIPE si pronunciasse esplicitamente dopo un’adeguata discussione. La mia proposta venne approvata all’unanimità. Dopo questa decisione trasmisi i progetti al Nucleo per la Valutazione e attesi le loro decisioni che intervennero dopo qualche settimana.”


- Poi cosa successe?

“Riunii il CIPE per comunicare la lista dei progetti che erano stati accolti. Vi fu una discussione molto aspra perché i ministri che avevano visto respingere i loro progetti o quelli da loro sostenuti cercarono di riaprire la discussione, sostenendo che ora doveva venire la decisione del CIPE. Io replicai che il CIPE aveva esercitato il proprio potere di decisione politica fissando i criteri ai quali la pubblica amministrazione doveva attenersi nella valutazione discrezionale dei progetti da accogliere o da respingere e che la sola cosa che poteva fare il CIPE era, eventualmente, discutere dei criteri per il futuro. Per quanto ovviamente insoddisfatti, la prima ripartizione del Fondo avvenne in questo modo.”


Il 1˚ dicembre 1982 al secondo Governo Spadolini subentrò il monocolore democristiano guidato da Amintore Fanfani con Guido Bodrato Ministro del Bilancio, governo che aveva il compito di portare il Paese alle elezioni politiche che si tennero nel giugno 1983.

I problemi arrivarono con i Governi Craxi, dapprima con l’allora Ministro del Bilancio, il socialdemocratico Pietro Longo, che mantenne in vita la struttura del Nucleo di valutazione cercando però di imporre i progetti da finanziare: Longo chiamò infatti il Nucleo di Valutazione e disse quali progetti ad avviso del ministro dovevano essere approvati.

Enzo Grilli si dimise, insieme ad altri componenti del Nucleo di valutazione, per tornare alla Banca Mondiale a Washington.

Successivamente il dicastero del Bilancio venne guidato – nell’ultimo anno del Governo Craxi II, prima delle elezioni politiche del 1987 – dall’altro socialdemocratico, Pier Luigi Romita, che provvide a reintegrare il Nucleo di valutazione dei componenti dimissionari, non tornando però allo schema originario del FIO che formalmente continuò ad esistere sino al 1999

Ma l’esperienza innovativa si era conclusa.

La Repubblica, in un articolo dell’ottobre 1984, riporta una affermazione di Pier Luigi Romita all’atto del reintegro del Nucleo di Valutazione con l’ingresso di dieci nuovi tecnici che l’allora Ministro del Bilancio definisce “Tutti tecnici di grande esperienza, gente che ha i capelli bianchi e che non ripeterà gli errori di gioventù compiuti dal vecchio staff".


- Ma il PRI, entrando nei due Governi Craxi con due esponenti di primo piano (Il Segretario Spadolini e il Presidente PRI Visentini) non supportò la richiesta di ristabilimento del FIO secondo le originarie volontà?

“Io ero contrario all’ingresso del PRI nei Governi Craxi ed insieme a Giovanni Ferrara, nella Direzione Nazionale del Partito, votai contro tale ingresso. Ma forse, riflettendo oggi su quelle vicende, penso che tra lo stesso Spadolini e Craxi all’epoca della formazione del primo Governo Spadolini fosse stato stabilito un patto di avvicendamento tra i due a palazzo Chigi.

Il PRI nelle persone di Spadolini e di Visentini aveva scelto di sostenere Craxi e i due non avrebbero fatto venir meno questo sostegno per una questione che forse consideravano ‘minore’. Io mi collocai in una posizione di attesa, fuori dalla maggioranza. Ma il Pri pagò cara in termini elettorali l’adesione al Governo Craxi.”


Maurizio Troiani

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