Il 12 e 13 ottobre 1978 si tenne alla Camera dei Deputati il dibattito sull’adesione dell’Italia al Sistema Monetario Europeo: uno degli ultimi interventi prima della votazione fu quello di Ugo La Malfa.
Fu il suo ultimo intervento parlamentare prima della scomparsa nel marzo dell’anno successivo, un intervento nel quale esprime compiutamente la sua visione dell’Europa ed il suo punto di vista sull’economia italiana, un intervento che insieme al discorso al XXXIII° Congresso del PRI celebrato nel giugno dello stesso anno, rappresenta il suo grande testamento politico.
Nella settimana precedente il dibattito alla Camera dei Deputati, l’Italia – con il sostegno del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, di larga parte della DC, del PCI e del PSI – sembrava orientata verso un rinvio dell’adesione allo SME.
La forte determinazione con la quale Ugo La Malfa e il PRI, insieme ad una parte non maggioritaria della DC ma molto impegnata e combattiva facente capo all’on. Gerardo Bianco, si batterono per l’immediata adesione prevalse sull’orientamento per il rinvio e così la Camera dei Deputati, dopo un dibattito che vide protagonisti i maggiori esponenti politici dell’epoca, approvò l’adesione dell’Italia al SME con 270 voti a favore, 228 contrari e 53 astenuti.
Questa vicenda conferma ancora una volta il peso e l’incidenza di una forza politica che pur di limitate dimensioni come è sempre stato di fatto il PRI, battendosi con molto coraggio e determinazione per gli interessi generali del Paese, riuscì in molte occasioni, fra cui questa, a risultare determinante nelle decisioni del Governo e del Parlamento.
Vale la pena ricordare che nelle elezioni politiche del 1976, le prime con il voto ai diciottenni, il PRI ottenne 3,09% alla Camera con 14 seggi e il 2.69% dei voti al Senato con soli 6 seggi cui aggiungere un seggio di una lista PSDI-PRI-PLI presentata in Liguria.
Dieci anni dopo, nel 1988, Beniamino Andreatta parlando ad un Convegno presso il Ministero degli Esteri a proposito dello SME affermò: “Questa la valutazione e l’insieme delle motivazioni che nei sostenitori più radicali, negli uomini – che trovarono in Ugo La Malfa il personaggio più rappresentativo – che presero parte ad una specie di congiura per contrapporsi alle tendenze, che sembravano maggioritarie, per un’attesa, per un rinvio”. Un riconoscimento, si direbbe a “denti stretti”, del ruolo che il PRI ebbe in quella occasione.
Non si trattò in alcun modo di una congiura, ma semplicemente della ferma dichiarazione che se il Governo avesse mantenuto il proposito dichiarato al rientro dal Consiglio Europeo di rinviare l’adesione italiana, il PRI si sarebbe ritirato dalla maggioranza. Evidentemente la DC valutò che sarebbe stata insostenibile una posizione antieuropea sostenuta dal PCI e contrastata dal PRI.
La ricostruzione delle vicende di quei giorni nei quali maturò l’improvviso cambio di posizione del Presidente del Consiglio Andreotti è stata offerta da Giorgio La Malfa in un convegno tenuto presso la Biblioteca della Camera dei Deputati il 26 marzo 2019 su “Ugo La Malfa e l’Europa. Il dibattito parlamentare sulla partecipazione dell’Italia allo SME” in occasione del 40° anniversario della scomparsa di Ugo La Malfa.
Il Sistema Monetario Europeo - SME
Ma cosa era il Sistema Monetario Europeo e quale era il contesto in cui si collocava in quell’autunno 1978 la decisione di aderirvi o meno?
Il SME - Sistema Monetario Europeo fu un accordo in forza del quale i Paesi della CEE si impegnavano a mantenere un tasso di cambio fisso fra la propria valuta e quelle degli altri Paesi aderenti, consentendosi soltanto un modesto margine di oscillazione del 2,5% verso l’alto e verso il basso prima che intervenisse l’obbligo da parte della Banca Centrale del Paese in questione di intervenire con acquisti o vendite della propria valuta al fine di mantenerla entro il previsto limite di oscillazione.
Quando, dopo le vicende di cui si parla, l’Italia aderì, le venne attribuito un margine di oscillazione più ampio, pari al 6%, poi assegnato anche ad altri Paesi. Nel 1993 il margine fu elevato per tutti al 15%.
Il Sistema Monetario Europeo nacque per creare una zona di stabilità monetaria in Europa in un periodo, come quello degli anni settanta, contraddistinto da alta inflazione e grande instabilità dei cambi.
Esso faceva seguito ad un precedente accordo – che fu definito “serpente monetario” - fra le banche centrali dei Paesi CEE, a sua volta nato all’indomani della crisi del sistema di cambi fissi iniziata nell’agosto 1971 con la dichiarazione unilaterale americana circa la non convertibilità del dollaro in oro su cui si fondava il regime di Bretton Woods.
Il “serpente monetario” si rivelò un accordo fragilissimo che venne travolto rapidamente dalla speculazione sui cambi. Proprio alla luce di questo fallimento, ma nella convinzione che fosse indispensabile assicurare un regime di cambi fissi fra i paesi europei impegnati nella costruzione di un grande mercato interno comune, Francia e Germania pensarono di fare un passo in avanti proponendo la creazione di un sistema basato non su un semplice accordo fra le banche centrali, ma su un accordo fra i Governi dei Paesi CEE. Lo SME, fortemente voluto dal Presidente francese Valery Giscard d’Estaing e dal Cancelliere tedesco Helmut Schmidt, fu sottoscritto dai Paesi all’epoca aderenti alla Comunità Economica Europea – CEE con l’eccezione della Gran Bretagna che vi aderì nel 1990. Esso entrò in vigore il 13 marzo 1979 e rimase in essere sino al 31 dicembre 1998 quando, con l’inizio della terza ed ultima fase dell’Unione Monetaria Europea, vennero adottati tassi di cambio irrevocabili fra le valute dei Paesi partecipanti.
La parità di cambio fra le varie monete venne fissata negli Accordi Europei di Cambio. Si stabilì peraltro che essa potesse essere modificata con l’accordo di tutti i paesi. I tassi di cambio delle singole monete potevano oscillare rispetto al cambio prefissato in più/in meno del 2,5%, del 6% per Italia, Gran Bretagna ma anche poi per Spagna e Portogallo entrate successivamente nella CEE.
Fu istituita una unità di conto ECU (European Currency Unit) sulla base del valore medio dei cambi del paniere e nel caso di eccessiva svalutazione/rivalutazione delle singole monete, i relativi governi dovevano intervenire con politiche monetarie interne per far rientrare le proprie monete nella banda di oscillazione, inoltre ogni Paese doveva conferire ad un fondo comune il 20% delle proprie riserve in oro ed in valuta.
Si costituiva così un “vincolo esterno” cui dovevano attenersi tutti i Paesi aderenti nelle politiche interne a fronte di una stabilità dei cambi.
Nel 1992, in seguito alle forti turbolenze monetarie, Gran Bretagna e Italia uscirono dal SME, ma mentre il primo Paese rientrò nel SME nel 1994, l’Italia vi rientrò nel 1996.
Il sistema fu rivisto nel 1993 con l’innalzamento della banda di oscillazione al 15% e nel frattempo con il Trattato di Maastricht del 1992, era iniziato il cammino verso la moneta unica.
Il contesto economico e sociale dell’Italia alla vigilia dell’adesione al SME
Una serie di fattori, internazionali ed interni, causò sin dall’inizio degli anni settanta profonde crisi economiche che innescarono, ovviamente, altrettante crisi sociali e politiche.
Finì così il trentennio caratterizzato dal sistema di tassi fissi concordato nel 1944 a Bretton Woods, dalla ricostruzione post bellica, dalla progressiva liberalizzazione degli scambi e quindi dal considerevole aumento del commercio internazionale e dal basso costo delle materie prime.
L’Italia beneficiò di questo favorevole contesto internazionale raggiungendo saggi di crescita mai raggiunti prima né dopo: tra il 1959 ed il 1962, i tassi di incremento raggiunsero il 6,4%, il 5,8%, il 6,8% e il 6,1%.
Invece di investire il “dividendo” del miracolo economico italiano per risolvere i perduranti problemi strutturali, in primis il divario Nord/Sud – come indicato nella Nota Aggiuntiva al Bilancio dello Stato del 1961 presentata dall’allora Ministro del Bilancio Ugo La Malfa - confidando evidentemente nella soluzione spontanea di tali problemi per il perdurare all’infinito dello sviluppo, l’Italia si trovò impreparata ad affrontare le crisi degli anni settanta.
Gli squilibri della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti particolarmente accresciuti dagli oneri militari per la guerra in Vietnam compromisero il sistema che era stato definito a Bretton Woods. Esso infatti prevedeva un regime di cambi fissi fra le valute dei paesi appartenenti al Fondo Monetario, garantito dalla convertibilità in oro dei dollari al prezzo di 35 dollari l’oncia. Quando, a partire dagli anni ’60, i disavanzi della bilancia dei pagamenti americana provocarono l’accumulazione di ingenti riserve in dollari da parte di molti Paesi, emersero dei dubbi sulla capacità per gli Stati Uniti di far fronte agli impegni di convertibilità dei dollari in oro. La Francia del generale De Gaulle chiese la conversione in oro dei dollari accumulati, mandando anche una nave militare davanti alle coste degli Stati Uniti per ricevere il controvalore in oro detenuto a Fort Knox dei dollari consegnati. A un certo punto gli Stati Uniti dovettero prendere atto di non essere in grado di mantenere l’impegno alla convertibilità aurea del dollaro. Da qui la dichiarazione del Presidente USA Nixon.
Inizialmente si pensò che il sistema dei cambi fissi potesse essere mantenuto in essere con una svalutazione del dollaro. Nel giro di due anni però risultò chiaro che il sistema non reggeva più. All’inizio del 1973 gli Stati Uniti annunciarono che il prezzo del dollaro sarebbe stato stabilito liberamente sui mercati dei cambi. Era finito il sistema dei cambi fissi inaugurato a Bretton Woods. Cominciava l’era dei cambi fluttuanti.
Le due crisi petrolifere, del 1973 in seguito alla guerra arabo-israeliana del Kippur e del 1979 per l’avvento al potere in Iran di Khomeini e la conseguente guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, causarono un vertiginoso aumento dei prezzi del petrolio.
In Italia, alla fine degli anni sessanta, le rivendicazioni sindacali innescarono un meccanismo che portò gli aumenti salariali ben oltre gli aumenti di produttività cui si saldarono anche una serie di riforme per le quali le forze politiche, con alcune eccezioni minoritarie, non seppero dire di no per non compromettere le basi di consenso, riforme che comportarono enormi costi per il bilancio dello Stato e rigidità quando era più necessaria una certa flessibilità: dalla riforma delle pensioni, alla riforma dell’indicizzazione dei salari, dall’avvento dello Statuto dei Lavoratori a quello delle Regioni, per non parlare della riforma dell’equo canone e del regime dei suoli.
L’inflazione così raggiunse in Italia livelli record superando in certi anni anche di gran lunga il 20% cui fece riscontro anche una sovrapproduzione industriale specie nei beni di consumo (automobili, televisori, elettrodomestici) che non trovavano più spazio nella domanda.
A questi elementi di carattere economico, se ne sommarono altri di altrettanta gravità che misero in serio pericolo le stesse istituzioni democratiche: la strategia della tensione avviata con l’attentato di Piazza Fontana a Milano nel dicembre 1969 ed il terrorismo.
Il contesto politico
Gli anni 70 furono anni molto difficili per la democrazia italiana. Sul piano economico, come si è detto, si manifestarono forti fenomeni inflazionistici in parte come effetto di aumenti internazionali dei prezzi del petrolio e delle materie prime, in parte dovuti a richieste salariali molto elevate. A sua volta l’inflazione provocò ulteriori richieste salariali per far fronte all’aumento del costo della vita, alimentando una spirale molto pericolosa. Nel frattempo mostravano un grande attivismo sia gruppi eversivi di estrema sinistra, sia gruppi eversivi di estrema destra. Sul piano più strettamente politico si mostrarono in tutta evidenza i limiti della formula di governo di centrosinistra. Nella DC era ancora forte l’ostilità verso l’alleanza con i socialisti e verso le riforme che i socialisti sostenevano. Sul PSI era molto forte la pressione esercitata dal Partito Comunista che lo accusava di cedere alla Democrazia Cristiana e di accettare politiche sostanzialmente moderate. Era una situazione che si dimostrava progressivamente insostenibile.
In questo quadro si fece strada un’ipotesi politicamente molto coraggiosa nelle condizioni internazionali del tempo – quella di allargare la base democratica del Paese portando il Partito Comunista nell’area di Governo. Nella Democrazia Cristiana fu Aldo Moro a porre questo problema. Il PRI di Ugo La Malfa portò il contributo della sua autorevolezza e della chiarezza programmatica sul terreno della politica estera e della politica economica a questo disegno, mentre nel PCI il segretario Enrico Berlinguer trasse dall’esperienza del colpo di Stato in Cile contro Salvador Allende lo spunto per proporre un “compromesso storico” fra le forze democratiche.
Emerse così l’ipotesi che si potesse formare una maggioranza e poi in seguito un governo di unità nazionale che mettesse al centro della sua azione il risanamento economico e la lotta contro il terrorismo e la violenza. Il Governo Andreotti della “non sfiducia” del 1976 fu un monocolore democristiano con l’astensione di tutti i partiti, salvo l’estrema destra di Almirante, compreso il PCI. All’inizio del 1978 nacque un nuovo governo Andreotti che ebbe il voto favorevole di tutti i partiti compreso il PCI e il voto contrario solo dell’estrema destra e del partito liberale.
L’esperimento fu colpito, per così dire, al cuore con il rapimento e la morte il 9 maggio 1978 di Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse. La morte di Aldo Moro, eliminando il grande tessitore del compromesso storico, indusse il PCI a rinunciare al disegno che Berlinguer aveva coltivato per lungo tempo. Quando, nell’autunno 1978, si giunse a dover decidere circa la adesione al Sistema Monetario Europeo il PCI aveva ormai maturato un orientamento a ricollocarsi all’opposizione. Ugo la Malfa considerò gravissima la decisione del PCI di opporsi all’adesione italiana, la considerò come un passo indietro lungo un cammino che aveva visto il PCI avvicinarsi alle posizioni occidentali, ma decise che la conferma del legame europeo era comunque più importante per l’Italia del tentativo di tener in vita un’operazione politica che era stata comunque ferita a morte dall’uccisione dell’on. Moro. Questo spiega l’amarezza dei suoi interventi prima nel congresso del PRI, poi nel suo discorso alla Camera del 13 dicembre.
Il dibattito del 12 e 13 ottobre 1978 alla Camera dei Deputati
Dopo la relazione del Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, intervennero nel dibattitto della due giorni i maggiori esponenti di tutti i gruppi parlamentari. Ugo La Malfa intervenne poco prima della votazione specificando subito di voler dare prevalenza al “fatto politico” piuttosto che a quello “tecnico”, pur essendo “uomo al quale si attribuisce una qualche competenza tecnica”, sottolineando altresì che “il primo apporto all’avanzamento della costruzione europea (che aveva vissuto negli ultimi anni una fase estremamente delicata) deve essere quello di porre il proprio Paese nelle condizioni migliori per perseguire obiettivi europei”.
“Ebbene, io ho seguito con grande attenzione il dibattito ed ho sentito esprimere la preoccupazione del come e dove ci lanciamo” ricordando però che sia il Presidente francese, Giscard d’Estaing, sia il Cancelliere Schmidt, principali sostenitori del SME, rischiavano forse di più di quanto poteva rischiare l’Italia.
“Esso – il SME – può anche fallire, ma non vorrei si dicesse che il SME è fallito perché non abbiamo avuto coraggio, perché noi al momento opportuno non abbiamo dato l’appoggio a coloro che si esponevano politicamente. Voi, onorevoli colleghi, preferireste una situazione in cui si possa dire che nel momento in cui si compie un passo in avanti o si tenta di compierlo, sia mancato l’appoggio dell’Italia?”.
Ugo La Malfa precisa inoltre che in caso di fallimento o di non entrata nel SME non sarà consentito all’Italia di fare qualunque politica “la politica che ho sempre condannato e quindi da questo punto di vista la mia coscienza e quella del gruppo che mi onoro di appartenere non è tra quelle che debbono farsi autocritica.”
“Non potremo pretendere aiuto – continua Ugo La Malfa – quando ci abbandonassimo ad una politica disinvolta sperando di far ricadere le conseguenze su altri Paesi.”
E forse il “vincolo esterno” per un Paese che era restio a sopportare politiche economiche adeguate alle esigenze e che potevano mettere in discussione le basi di consenso delle varie forze politiche, era il grande discrimine fra quanti guardavano più agli interessi generali e quanti agli interessi particolari.
E rispetto a quanti, in particolare socialisti e comunisti che chiedevano di posporre la decisione di sei mesi, astenendosi poi in fase di votazione, Ugo La Malfa precisa: “Ho ascoltato con molta attenzione i discorsi tecnici che qui si sono tenuti, ma, collega Cicchitto, collega Napolitano, vi dirò che cinque o sei mesi di tempo non cambiano nulla dal punto di vista dei rischi”.
Ugo La Malfa ricorda inoltre come l’Italia, nonostante avesse avuto in passato la possibilità di risolvere gli squilibri strutturali fra aree forti e aree deboli, non lo avesse fatto. Ed il pensiero non può non andare alla Nota Aggiuntiva al Bilancio dello Stato del 1961.
“Noi abbiamo sviluppato – ricorda La Malfa – verticalmente il potere di acquisto e di consumo della società industriale più avanzata del nostro Paese mentre avevamo il dovere di sviluppare orizzontalmente il potere di acquisto e di consumo se volevamo riequilibrare la nostra situazione”
In tal senso: “Sarebbe bene che il Parlamento italiano, che ha avuto momenti elevati di discussione, anche se non recenti, su indirizzi di politica economica dedicasse qualche seduta a questi problemi”.
Ed a proposito della politica di solidarietà nazionale Ugo La Malfa afferma: “Che cosa è la politica di solidarietà nazionale se non si riesce attraverso dibattiti e discussioni a trovare un programma comune per tirar fuori il nostro Paese dalla crisi?”
E, rivolto ai comunisti, afferma che era quasi sicuro del loro consenso all’adesione al SME in quanto “momento decisivo per l’avanzamento della costruzione europea”.
Ricordando altri passaggi storici decisivi sulla strada della costruzione europea che hanno avuto bisogno di grande coraggio politico come l’adesione alla CECA (Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio) o la liberalizzazione degli scambi nel 1951, Ugo La Malfa con grande dose di umiltà confessa: “C’è stata mancanza da parte nostra nel rendere estremamente chiari ed evidenti gli aspetti politici ed ideali del problema. Questo io mi aspettavo: queste potevano essere le due grandi giornate europee di tutte le forze che oggi contribuiscono alla politica di solidarietà nazionale”.
“È stata la nostra insufficienza – sottolinea lo statista repubblicano – a determinare incomprensioni. Ma se noi dobbiamo compiere un atto deciso è perché abbiamo visto non solo mettere in forse il nostro passato, che ha fatto sì che il nostro Paese da agricolo, depresso, autarchico con industrie protette, diventasse, come io spero possa ridiventare una grande potenza industriale, moderna, aperta agli scambi, capace di coraggiose iniziative”.
Ed avviandosi alla conclusione dell’intervento, Ugo La Malfa afferma: “Non possiamo, onorevoli colleghi, esimerci dal fare con gli altri questo sforzo; non possiamo assumerci la responsabilità di mancare – qualunque sia la nostra condizione – a questo appuntamento. Come noi oggi ci siamo impegnati in questo dibattito, ci impegneremo domani a continuare lo sforzo, a discutere, a trattare, ma senza perdere di vista il fatto che se falliamo, falliamo tutti. Se questa Europa non riesce a realizzarsi come unità contro le spinte particolari, viene a mancare un grande momento della storia europea, ma viene a mancare anche un grande momento della storia del mondo”
Radio Radicale, nel suo meritorio impegno, ha pubblicato la registrazione audio dell’ultimo intervento parlamentare di Ugo La Malfa, il 13 ottobre 1978, sull’adesione al SME, di cui sopra abbiamo riportato alcuni stralci. https://www.radioradicale.it/scheda/571692/l-adesione-allo-sme-lultimo-discorso-parlamentare-di-ugo-la-malfa-del-13-dicembre-1978
Ascoltare la voce del grande statista repubblicano, annoverato giustamente fra i Padri della Patria, suscita una grande commozione non solo per gli alti contenuti del suo intervento ma anche per la grande passione civile e politica che si manifesta.
Ed il rievocare su queste pagine de Il Commento Politico i passaggi fondamentali (dalla Nota Aggiuntiva, alla liberalizzazione degli scambi, dall’adesione al SME e - in un prossimo futuro - al suo discorso al XXXIII° Congresso del PRI), vuole soltanto essere una modesta testimonianza della gratitudine al grande statista repubblicano per il grande patrimonio che ci ha lasciato.
Maurizio Troiani
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