Con questo articolo Il Commento Politico apre la rubrica Lettera da Londra per seguire da vicino il post-Brexit
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La morte di HRH Prince Philip ha nuovamente concentrato la mente degli Inglesi (nocciolo duro del Regno Unito) sulla loro appartenenza ad una nazione che si riconosce profondamente nella propria storia e nella propria dinastia (anche se ogni tanto presa in prestito da dinastie europee come nel caso di quest’uomo simpaticamente bizzarro e fuori dagli schemi). La Famiglia Reale è senza dubbio al primo posto nella gerarchia degli affetti inglesi, subito seguita ovviamente da cuccioli, cavalli e giardini. Figuriamoci il rispetto verso una Regina che a 96 anni ancora monta a cavallo ed è circondata dai suoi cagnolini. Ovviamente l’Unione Europea occupa saldamente l’ultimo posto nelle preferenze di questa nazione sostanzialmente an-affettiva.
Ma sbaglia chi considera l’Inghilterra (cuore neo-nazionalista del Regno Unito) solo come una nazione di “bottegai”, secondo la celebre definizione attribuita a Napoleone. È anche quello - ma non solo. La decisione di lasciare l’Unione Europea non poggia su basi di razionalità economica. È stata soprattutto un ritorno emozionale alle proprie origini libertarie, all’ebrezza di navigare, al condursi senza regole dettate da altri. C’è un mix di emozionale, di culturale, di istintivo negli eventi londinesi degli ultimi cinque anni - un mix che va ben al di là del cinismo economico per il quale il Paese è conosciuto universalmente. C’è soprattutto la propria antropologica insularità, che ha offerto per secoli il vantaggio di non avere confini porosi e aperti all’esterno (tranne che per accogliere forza lavoro dal Commonwealth).
Boris Johnson, studiosamente scarruffato come sempre, non perde giorno per confermare il valore della scommessa neo-nazionalista intrapresa con la Brexit. Lo fa nonostante i quasi 130mila morti che in larga parte sono dovuti proprio a questa auto-proclamata “eccezionalità” e quindi a un’iniziale sottovalutazione del COVID. Ora che la campagna di vaccinazione sta avendo discreti successi (oltre 40 milioni di dosi già somministrate) Londra, lasciati gli ormeggi europei, sta decisamente affrontando il vasto mare. Sta aprendo nuovi fronti commerciali in giro per il mondo seguendo la propria storica vocazione: l’istinto corsaro che, con astuzia e rapacità, nel corso degli ultimi tre secoli le ha consentito di accumulare un Impero (per poi perderlo ma comunque riplasmarlo a suo vantaggio).
Nel mondo attuale, tuttavia, questo comportamento pone seri problemi. Da una parte, il Paese è strutturalmente debole, sbilanciato e socialmente diviso (il 40% dei giovani neri è disoccupato), caratterizzato da una forte dequalificazione della mano d’opera industriale. Il Paese si vanta di non avere né volere una politica industriale, lasciandola di fatto in mano ad un mercato che è più interessato alla finanza di breve termine. Dall’altra, l’economia mondiale è ormai troppo integrata e affollata per consentire un “first mover advantage” a chi improvvisa e pur si muove con destrezza. I rapporti di potenza sono ormai troppo strutturati in favore dei grandi blocchi commerciali come l’Europa, il Nord America, la Cina, con le loro zone di influenza più o meno “captive”. Inoltre, la base industriale britannica ha ormai poco da offrire, essendo quasi evaporata in seguito alla desertificazione industriale delle Midlands, a favore dello sviluppo dei servizi della City negli ultimi 20-30 anni. Basta pensare al triste declino di marchi prestigiosi come Rolls Royce (nel comparto dei motori aerei), Burberry (nell’abbigliamento), Aston Martin (nelle auto di lusso). Gli unici investimenti corposi in piattaforme industriali negli ultimi 20 anni sono stati fatti da gruppi esteri (come Toyota) per avere accesso al mercato interno e anche europeo.
Certo, dato il successo delle vaccinazioni, il rimbalzo nel 2021 sarà forte, con una crescita prevista a oltre il 5% sia nel 2021 che nel 2022, superiore alla media EU. Non ci sarà quindi bisogno di tassi d’interesse negativi per far ripartire l’economia. La Banca d’Inghilterra recentemente ha calcolato che, dopo il picco degli ultimi 12 mesi, il fabbisogno delle istituzioni pubbliche tornerà a livelli “normali” pre-crisi entro l’inizio del 2023, tra soli due anni, mettendo in conto una vibrante ripresa dell’economia sganciata dalle regole europee. Non si può escludere nel breve termine una capacità reattiva forte, anche per via di un mercato del lavoro che diventa sempre più libero – ma anche più precario. E solo una crescita poderosa e ben distribuita nel territorio può sventare, o almeno ritardare, le istanze secessionistiche della Scozia. Il 6 Maggio, se lo Scottish National Party vincerà le elezioni in Scozia, un secondo referendum per l’Indipendenza sarà inevitabile, probabilmente nel 2022, con l’inizio di una frammentazione del Regno Unito (dopo 300 anni di unione tra le quattro nazioni costituenti). In definitiva, permangono seri dubbi sul fatto che la ripresa inglese sia duratura.
È comunque decisa per l’Inghilterra la scelta di una strategia di nicchia fondata sulla centralità di Londra e della City, sui servizi (ampiamente intesi) e sulla competizione fiscale, primariamente con l’Europa. In fondo un posizionamento non troppo dissimile da Singapore. Senza ovviamente dimenticare il turismo, connesso alla propria abilità nell’organizzazione di parate e cerimonie, narrazioni storiche e dinastiche. Che poi si connette all’ambizione di restare una media potenza che continua a raccontarsi come una grande potenza e quindi sente la necessità di mantenere forze armate ed un deterrente nucleare solidi e credibili.
Samuel Pepys jr.
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