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Machiavelli in America


Lettera da Washington


Machiavelli, sulle orme di Polibio, aveva concluso che la migliore forma di governo dovesse essere una miscela bilanciata di monarchia (potere esecutivo), aristocrazia (comando di pochi), e democrazia (potere della moltitudine). Nessuno di questi sistemi avrebbe da solo potuto garantire una stabilità duratura perché la monarchia degenera in tirannia, l’aristocrazia in oligarchia e la democrazia nell'arbitrio delle masse.

Il politologo fiorentino sembra avere ancor oggi in America un ragguardevole seguito, che si chiede come una democrazia creata su questo principio possa proprio da tale principio essere messa rudemente alla prova. E si ha il sospetto che la democrazia americana si stia rivolgendo contro sé stessa.

Biden ha ereditato una situazione molto difficile ed è in una posizione di immensa responsabilità non sostenuta da congrua e sufficiente autorità: nascondere una sconfitta militare, combattere una pandemia, salvare il pianeta dall’estinzione e mantenere alto il morale di cittadini e alleati non è facile se si è a capo di una democrazia divisa.

Questa divisione che lacera l’America ha radici profonde e nasce da una ambiguità tramandata dai padri della patria, i quali pur di realizzare l’unione delle colonie americane preferirono lasciare molte questioni in una incertezza da affrontare in un futuro lontano. Ora quel futuro è arrivato.

La Costituzione delinea il rapporto tra i cittadini e lo Stato ma delinea quest’ultimo solo per grandi principi, lasciando il funzionamento degli apparati alla sola democrazia.

Ma l’America, lo scoprì per primo Tocqueville, è un paese di avvocati, che intellettualmente, per forma mentis e per deformazione professionale sono focalizzati solo sulle proprie ragioni: “Se quello che sostengo non è valido, dimostralo; se non ci riesci, allora è anche giusto”.

La chiave della democrazia americana risiede nella facoltà di ciascuno di perseguire ciò che vuole, senza altro limite che le barriere erette dai divieti di legge, ma resta controverso se questa ricerca del proprio interesse (the pursuit of happiness) sia o meno soggetta ad una implicita solidarietà tra cittadini, per garantire che la happiness di uno non generi necessariamente la unhappiness di altri.

Una risposta che si credeva definitiva provò a darla l’illuminata generazione rooseveltiana, ma quella impostazione, mentre i suoi ultimi superstiti testimoni stanno oramai scomparendo, è sotto attacco.

Due secoli fa i fondatori degli Stati Uniti, architetti e ingegneri della politica, avevano disegnato e montato una macchina che conteneva una risposta sistemica a queste domande. L’esistenza dei suoi checks and balances ha assicurato la coesione del paese, nonostante una guerra civile sanguinosa e mai veramente risolta e nonostante le inevitabili contraddizioni tra le diverse componenti etniche, culturali, religiose e di censo.

Dove il comunismo sovietico è fallito, lo spirito di impresa americano ha brillato, ma proprio nel momento del trionfo sul competitore sono comparsi i primi sintomi dell’erosione dei valori che tradizionalmente davano stabilità alla nazione.

Reagan ha vissuto l’apice del successo, ma ha anche determinato l’inizio del declino della classe media, che era la protagonista dell’incontro tra le divergenze interne alla società e la vera sede del melting pot nazionale. Con la perdita di questo calmiere naturale, le divergenze sono ora gestite dal governo, che stenta a scrivere regole capaci di colmare vuoti molto profondi.

Il concetto di libertà assume diverse sfumature in diverse parti del paese. L’emancipazione razziale e di genere che è stato il contributo storico degli anni ’60, ne ha definito i principi e le legittime aspettative che ne derivano, ma l’uguaglianza è rimasta elusiva. Non esiste nella Costituzione un diritto esplicito alla pursuit of equality, che era presunta, poiché all men are created equal and independent). L’emancipazione, per eliminarli, ha puntato il riflettore su divari e differenze. Il risultato è che manca ora un consenso su ciò che lo Stato americano, nei riguardi della nazione, debba proporsi. Dove si situa il confine tra tutela dei diritti di ciascuno e difesa delle aspirazioni di ciascun altro?

Gli anni di Trump avranno avuto il merito di segnalare un tumore trascurato, già presente, rivelatosi maligno e in prospettiva mortale, ma ancora controllabile: forse con un po’ di chirurgia, ma soprattutto con una correzione allo stile di vita, come quando i dottori ci dicono di smettere di fumare.

Spetta ai nostri partner americani prendersene cura. L’America non ha infatti l’opzione di essere una democrazia con dei parametri rigidi, come sembrano ritenere invece i più conservatori dei suoi politici, perché la prima vittima dell’esclusione politica è proprio la democrazia e perché la Costituzione fornisce alla democrazia gli strumenti per adattarsi nel tempo. Per converso, applicare regole e benefici della democrazia solo a una parte prescelta degli abitanti è stato l’accorgimento immaginato nel Sud Africa dell’apartheid, ma in un paese orgoglioso della propria storia non dovrebbe aver spazio il sotterfugio di una frazione politica per guadagnare o conservare il potere.

La campagna in atto in America ad opera dei Repubblicani conservatori mira invece proprio a questo. Rendere il voto difficile, anziché facile, frapporre ostacoli burocratici, limitare le opzioni per l’esercizio del voto, tracciare circoscrizioni elettorali con maggioranze prefabbricate: l’elenco è lungo, e per la maggiore parte riguarda espedienti che non infrangono la lettera della legge. Ma una democrazia che non si metta al riparo da queste pratiche non ha speranza di sopravvivere a lungo come tale.


Franklin

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