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Macron tra fermenti al centro e opposti estremismi

Lettera da Parigi


Il dilagare dei propositi iconoclastici e delle ipotesi estreme su tutti i media che, per motivi di ascolto, ma talvolta mostrando eccessiva compiacenza, fanno da cassa di risonanza a Zemmour, a destra, e specularmente a sinistra a Mélenchon (in lieve, ma altalenante ripresa di consensi), non accenna ad attenuarsi. Continua anzi a favorire un costante consolidamento del consenso per quei candidati, dichiarati o potenziali, che sfruttano abilmente l’impatto di posizioni sempre più radicali.

Nei numerosi, incalzanti sondaggi, il “polemista” ultra-conservatore è sostanzialmente alla pari con Marine Le Pen. Nelle simulazioni delle opzioni per il primo turno, raggiunge percentuali addirittura superiori a quelle che poterebbe raccogliere il Signor X, cioè chiunque sarà l’esponente designato dalla destra neo-gollista, quando (e se) il Partito riemergerà dal marasma in cui si trova per lotte intestine, controversie programmatiche e persino divergenze ideologiche.

A sinistra, Mélenchon cerca di trarre vantaggio dalla sconfitta alle primarie aperte dei Verdi (e per solo una manciata di voti) della candidata eco-femminista Sandrine Rousseau.

Il tribuno ex socialista appare chiaramente intenzionato a corteggiarla, insieme a tutti coloro (soprattutto i più giovani) che si dichiarano amaramente delusi dall’inconsistenza della Gauche e dall’affanno degli esponenti classici del progressismo, dalla socialista Hidalgo al neo comunista Roussel, in caduta libera di consensi. Mélenchon insegue così l’improbabile, ma non del tutto irrealistico disegno di ergersi a campione unico – se non nelle liste ufficiali almeno nel sentimento popolare – del malcontento e quindi della controffensiva progressista. E rivendica il ruolo di “tribuno del Popolo” attestandosi su proposte antieuropee, bolivariste e apertamente favorevoli ad un sistema di democrazia diretta di tipo plebiscitario.

Vanno intanto manifestandosi con crescente insistenza, ma senza che se ne delinei per ora una sintesi programmatica, le prime contro-reazioni dei moderati di varie estrazioni, dai centristi tradizionali al “macronismo” ortodosso, sino al campo allargato dei suoi alleati potenziali.

I centristi “stricto sensu”, un micro-arcipelago di piccoli partiti ricchi di storia e di tradizione, ma ininfluenti per base elettorale appaiono i più disorientati e “masticano amaro” per l’ostentata indifferenza manifestata nei loro confronti dalla destra neo-gollista, troppo impegnata a cercare di metabolizzare il gradimento che suscitano nelle sue fila i vaticini e le eretiche seduzioni di Zemmour.

L’ultimo colpo per formazioni democristiane d’animo e fedeli all’ideale europeo è stato assestato dai “Républicains” con la scelta, formalizzata sabato scorso, di un Congresso straordinario chiamato a designare il candidato presidenziale in luogo di primarie aperte, che venivano sino a ieri sempre definite “della destra e del centro”. Nel 2017 vi avevano del resto concorso esponenti centristi, insieme ai leaders storici neo-gollisti. Dal Congresso, invece, essi sarebbero esclusi, mentre vi sarebbero invitati - con una capriola un po’ bizantina in quella che somiglia sempre più ad una tela di Penelope - Bertrand e Pécresse, pur non più iscritti ai “Les Républicains” e da molti considerati, specie fra i simpatizzanti di Zemmour, alla stregua di “traditori” della vera identità della Droite.

Quale effetto collaterale della grande rottamazione operata da Macron, molte di queste formazioni si sono via via riconvertite lasciando il terreno del “centro” occupato essenzialmente dal Modem di François Bayrou, principale sodale del Presidente nella campagna del 2017, oggi Alto Commissario alla Programmazione e tuttora principale alleato in Parlamento e fuori della République en Marche.

“Le elezioni si vincono al Centro “, il vecchio adagio sembra calzante anche per le prossime presidenziali francesi: se si dà credito ad un sempre più consistente drappello di sociologi, anche autorevoli, l’irresistibile ascesa degli estremismi contrapposti non ha ancora completamente esaurito il serbatoio di idee drasticamente radicali, costituito allo stato attuale nella società francese da una minoranza di cittadini che non sarebbe superiore al 25%. I sondaggi, finora si riferirebbero cioè più ad una esasperazione diffusa, a destra come a sinistra, che a reali intenzioni di voto.

Persino le fiammate istintive di passione e di adesione per questa o quella personalità appaiono ad oggi condizionate dall’incertezza che regna ancora su alcune candidature, prima fra tutte, ma non solo, quella del Presidente uscente.

Risulta evidente, da un lato, l’interesse per Macron di non bruciare le tappe e di mantenere la posizione di distacco personale, ed il margine di privilegio, consoni alla autorevolezza e alla visibilità della sua funzione. Ciò tanto più in una congiuntura come l’attuale di diffusa fiducia nel suo operato, specie in materia di crisi sanitaria e dei suoi corollari socio-economici.

I toni del Presidente si mantengono aulici e “super partes”; anche quando, mordendo il freno e contenendo a malapena il suo istinto di “battant”, cede alla tentazione di non lasciare passare senza risposta i più macroscopici anatemi di Zemmour e ne contesta il fondamento: senza mai nominarlo, con riferimenti storici alti all’universalismo della Francia, della sua cultura e della sua lingua, come ha fatto venerdì scorso nella simbolica cornice della Bibliothèque Nationale intitolata a François Mitterrand.

Ma alla cautela ed al temporeggiamento del Presidente, non corrisponde analogo attendismo presso i suoi sostenitori, a cominciare naturalmente dalla “République en Marche” e dai suoi alleati del Modem, fino a personalità del conservatorismo illuminato da lui insediati e investiti di portafogli di prima importanza, quali il Ministro dell’Economia, Le Maire; degli Interni, Darmanin; dell’Educazione Nazionale, Blanquer; l’ex- chiracchiana Ministra della Cultura Bachelot; il Commissario europeo Breton, già Ministro dell’Economia di Sarkozy, o lo stesso Primo Ministro Castex. Durante l’estate sono stati raggiunti da Edouard Philippe, ex-primo ministro, ex- delfino di Juppé, ora sindaco di Le Havre, in testa nel gradimento assoluto dei francesi per i politici e stimato anche nelle file neo-golliste. Philippe ha annunciato che, a giorni, ufficializzerà la fondazione di una nuova formazione politica, aperta ai simpatizzanti del centro-destra con il sostegno di molti amministratori locali, fra cui i sindaci di varie importanti città. Con il dichiarato proposito di contribuire alla campagna di Macron ed alla creazione, in caso di sua rielezione, di una maggioranza presidenziale in Parlamento più ampia dell’attuale. I commentatori si sono affrettati a chiosare che la mossa di Philippe dà l’avvio ad una strategia di più lungo respiro che si prefigge l’orizzonte del 2027 e la lenta ricostituzione di uno schieramento di centro-destra, in vista della conquista dell’Eliseo al termine del secondo (ed ultimo, per Costituzione) mandato di Macron. E molti di loro si affannano a illustrarne tutte le ipotetiche ripercussioni negative fin dalla campagna in corso: dai “gossip” intorno a presunti, perduranti dissapori fra Macron e Philippe, soprattutto per il rigorismo di cui l’ex Primo Ministro è campione in materia di bilancio e di spesa pubblica, alle “gelosie” manifestatesi in passato nel rapporto con Bayrou che intenderebbe mantenere l’esclusiva di primo alleato e di “padre nobile” della “macronie”; sino alle divisive ripercussioni che un siffatto allargamento della maggioranza presidenziale potrebbe avere sull’ancora fragile “corporatura” di “En Marche”, in particolare sul piano della futura “leadership”, specie in Parlamento, di una alleanza più ampia e più orientata a destra.

Tuttavia, al primo grande raduno – venerdì scorso ad Avignon, con molte migliaia di aderenti o simpatizzanti – il giovane partito del Presidente è parso unito e deciso a promuovere e sostenere la rielezione del Presidente uscente. La maggior parte dei gonfaloni gialli dei “marcheurs” era stata modificata con la scritta “majorité présidentielle” e questo è stato il fulcro degli interventi susseguitisi nella plenaria e nei tavoli tematici. Seppure in uno stile un po’ da convention americana, il raduno si è svolto all’insegna delle parole d’ordine “rassemblement, bienveillance et progrès”. Dopo l’aggressiva e soffocante atmosfera delle apparizioni a raffica degli estremisti su tutti i teleschermi, la “due giorni di Avignone” è sembrata a molti come un ritorno alla ragione, un soffio salutare di aria meno inquinata dai parossistici richiami ad una visione asfittica e nostalgica (“rabougrie”, rinsecchita, dicono qui) di una Francia del passato. Di qui a costruire la campagna, le sue tappe, i suoi programmi – con la rivendicazione del consuntivo del primo quinquennio – il passo è ancora lungo: specie perché si tratta di convincere non tanto i già convertiti, ma i tanti elettori incerti che alimentano lo spettro dell’astensionismo e che gli incantatori di serpenti populisti e sovranisti cercano di attirare a sé.


l’Abate Galiani

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