Lettera da Parigi
Per gli iscritti a Les Républicains – ultima denominazione assunta dal partito degli eredi di de Gaulle – è iniziata la maratona del voto on line che dovrebbe svelare, questo fine settimana, il nome del candidato da loro designato per la sfida presidenziale di aprile.
Le televisioni francesi hanno però messo in secondo piano il dibattito conclusivo fra i cinque aspiranti alla nomination, svoltosi la sera del 30 novembre, dando massima risonanza alle due “notizie del giorno”: l’annuncio per video della candidatura ufficiale di Zemmour, seguita dalla sua prima intervista sulla rete nazionale nel corso del telegiornale della sera; e la lunga diretta (oltre due ore) della coloratissima cerimonia di trasferimento al Pantheon delle spoglie di Joséphine Baker, prima donna di colore e prima stella del varietà ad essere accolta fra gli eroi che riposano nel tempio laico dedicato ai grandi della storia francese.
Ai francesi è apparsa da un lato una grande festa di popolo, ricca di luci, musiche e gigantografie dell’indimenticata vedette della “Gaité”, pur nella solennità conclusiva all’interno del mausoleo, e dall’altro l’immagine “fissa”, nella penombra di uno austero studio mal illuminato, del “mezzo busto” di Eric Zemmour, intento a leggere il testo del suo proclama: una scenografia da lui prescelta perché del tutto simile a quella cui… fu costretto de Gaulle per il suo celebre appello da Londra nel 1940.
E se per le strade di Parigi (e sui teleschermi) risuonava una variopinta colonna sonora con l’intreccio del qui celeberrimo “J’ai deux amours, mon Pays et Paris …” e delle suggestive polifonie di Dusapin (il principale compositore contemporaneo francese), la discesa in campo del polemista – mosso, a suo dire, dal paventato rischio di estinzione del Paese e dall’imperativa esigenza non già di riformarlo ma di salvarlo dal baratro - era quasi ossessivamente ritmata dalle melanconiche battute del secondo, crepuscolare movimento della Settima di Beethoven.
Per molti, l’onore riservato a Joséphine Baker ha rappresentato l’occasione per scoprirne la figura e la storia. Più ancora delle sue leggendarie e poliedriche prodezze sul palcoscenico, si sono salutate le sue eroiche gesta di protagonista della Resistenza, di pioniera dell’impegno sociale a favore dei giovani (primi fra tutti i suoi dodici figli adottivi) e di attivista a fianco delle lotte antirazziste nel mondo intero. Comprese quelle nei suoi nativi Stati Uniti, con la presenza al Lincoln Memorial di Washington a fianco di Martin Luther King al momento del lancio della Grande Marcia, in divisa di ufficiale dell’aeronautica, fregiata delle onorificenze francesi e con la croce di Lorena donatale da de Gaulle al collo.
Nel bel discorso commemorativo pronunciato da Macron davanti ad un’audience di politici, militari, artisti ed attivisti per lo più di sinistra, trasmesso integralmente in diretta, il convitato di pietra (o meglio il contraddittore incombente) appariva proprio Zemmour. Il presidente ha ricordato l’universalismo incarnato dalla Baker, la sua condizione di donna, immigrata e di colore, la sua professione di “eterna riconoscenza” al Paese che l’aveva accolta partecipando al suo riscatto. Tutto il discorso, seppure scevro anche solo di indiretti riferimenti all’attualità politica, deve essere risuonato alle orecchie del neo-candidato e dei suoi sostenitori come una puntuale ed articolata contro-argomentazione, ed una sorta di implicita ma convincente smentita di una visione apocalittica, catastrofista ed emergenziale di una Francia condannata ad un irresistibile declino. “Ma France – ha detto il Presidente – c’est Joséphine Baker”.
Persino i più apertamente critici fra gli analisti, in particolare quelli della Cnews di Bolloré, hanno dovuto ammettere a denti stretti che l’iniziativa della Panthéonisation (così si dice qui) della Baker e il discorso presidenziale hanno segnato un punto a favore di Macron, tanto nella tempistica che nell’efficacia di un segnale inviato alla Francia progressista, fedele alle cause dei diritti civili e dell’avanzamento sociale.
Sulla candidatura di Eric Zemmour sono invece piovute riserve, quando non aspre critiche, anche da destra. A partire dal messaggio del clip fatto circolare dal polemista, giudicato catastrofista e sinistro, imbevuto di stantii riferimenti storici (oltre a de Gaulle, Giovanna d’Arco, il Re Sole, Napoleone e via dicendo); ma anche biasimato per il carattere amatoriale del video, che va provocando una pioggia di denunce per l’abusivo utilizzo di immagini e di spunti musicali senza la previa autorizzazione dei detentori dei rispettivi diritti. Zemmour sembra, insomma, già relegato in un isolamento che lascia trasparire un affanno crescente nella ricerca di finanziamenti, un palpabile assottigliamento degli sponsor e persino i primi dubbi sulla capacità del polemista di assicurarsi l’avallo minimo di cinquecento firmatari (eletti localmente o a livello nazionale) richiesto per legge entro i prossimi mesi ai fini della convalida formale della candidatura.
Forse ancor più negative sono state le reazioni alla prima intervista rilasciata da Zemmour in veste di candidato: arroccato sulla monotematica questione dell’immigrazione e della mancata integrazione degli islamici, ha respinto con arroganza le domande di uno dei più noti anchormen di prima serata, insolentendolo bruscamente. Un inizio non proprio felice, dopo il folgorante esordio dei mesi scorsi, che si traduce anche nei più recenti sondaggi, indicativi di una risalita di consensi per Marine Le Pen. Ma Zemmour insiste e rilancia, in vista della grande adunata fondatrice del suo Movimento, prevista per il 5 dicembre nella periferia parigina.
Quel che è certo è che la frammentazione della tendenza conservatrice si è cristallizzata e conta, a destra, almeno tre candidati principali. È ormai quasi certo che la soglia percentuale per il passaggio al primo turno si abbasserà notevolmente e non sarà, con ogni probabilità, superiore al 20%, rendendo precaria ogni previsione a distanza sull’accesso al ballottaggio. Aumenta così la grande incertezza sull’andamento della campagna, già condizionata fortemente dall’incognita della pandemia e dalla volatilità della situazione interna ed internazionale.
Le idee e le proposte continuano a scarseggiare. Tuttavia, vanno delineandosi con maggior nettezza due principali visioni contrapposte; quella incarnata da Macron, che si ispira ad una raffigurazione del Paese più serena ed incoraggiante: vi trova spazio una cifra di ottimismo e di progettualità concreta per il futuro, con l’aggancio operativo ad una avanzata ed aggiornata dimensione europea. E quella, dominante in tutta la destra, del cammino da percorrere per superare un asserito, inarrestabile declino e per restaurare una autentica primazia della Francia nel mondo. Ed anche quando a declinare questa versione sono i meno oltranzisti fra i pre-candidati neogollisti, lo spazio riservato all’Europa ed al futuro dell’integrazione (rilanciato dall’intesa Macron-Draghi) appare angusto e relegato con reticenza e scetticismo fra le priorità meno urgenti, se non talvolta addirittura meno rilevanti.
l’Abate Galiani
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