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Mentre il governo lavora i partiti arrancano

Ci sarà pure qualche motivo se ieri il maggior quotidiano della capitale dedicava le sue prime quattro pagine all’arrivo di Jose Mourinho alla Roma.

E se le dichiarazioni di Fedez alla festa del primo maggio hanno tenuto banco per giorni in tutti i media tradizionali e sui social.

La verità è che la politica è scomparsa dalla scena, proprio mentre dovrebbe approfittare della presenza di un governo di salute pubblica per guardare ai propri errori e possibilmente metterci rimedio.

Un acuto osservatore come Ugo Magri titola sull’Huffington post: “Preparatevi allo scontro epocale tra Salvini e Meloni”. Magri ritiene possibile che Fratelli d’Italia possa a breve scavalcare la Lega e rileva come non ci sia feeling tra i due leaders che, anzi, letteralmente “si odiano”. Ciò spiegherebbe tutti i comportamenti recenti di Salvini: dal non cedere la presidenza del Copasir alla alleata-nemica, alla preoccupazione di non concedere posizioni al momento delle nomine nel nuovo Consiglio d’amministrazione della Rai ed in tutti gli altri enti cui si dovrà procedere a nuove scelte.

Il risultato è che il leader pro-tempore del centrodestra si muove solo per evitare che la rendita di posizione che ha la Meloni, in qualità di unica opposizione al governo, possa dare eccessivi frutti. Da tutto ciò deriva la pervicace costanza nell’approvare e criticare nello stesso tempo le decisioni del governo di cui la Lega fa parte e le difficoltà di riuscire ad individuare candidati per le elezioni dei sindaci delle grandi città. La rinunce di Bertolaso a Roma e di Albertini a Milano sono figlie di questo marasma.

Nulla trapela così dal centrodestra su questioni che dovrebbero essere cruciali per una coalizione che i sondaggi insistono a considerare vincente in future elezioni generali. Nulla su un possibile progetto di politica economica, un terreno su cui si continua solo a ripetere la stantia e vaga litania della flat tax. Nulla sulla collocazione internazionale, ancorata a vecchi miraggi (Trump, Putin) e sconcertanti convergenze (Le Pen, Orban).

Se a destra l’unica preoccupazione di Salvini è ciò che fa la Meloni, a sinistra la vera preoccupazione di Letta è ciò che non fanno i Cinquestelle.

Scrive oggi Massimo Franco sul Corriere della Sera che mentre il modello di democrazia digitale è fallito, il movimento non riesce a darsi una nuova fisionomia. Conte è impantanato nelle grane giudiziarie che Casaleggio e i dissidenti gli procurano ogni giorno, impedendogli di uscire allo scoperto come nuovo leader. Egli dovrebbe (e ne è tentato) creare un nuovo partito, con Di Maio e con gli altri “governisti” che ancora rappresentano la maggioranza del movimento e dei parlamentari, ma in ciò è frenato da Grillo, forse restio a perdere la primogenitura o forse troppo occupato con i problemi giudiziari del figlio.

Questa impasse impedisce di sciogliere quel nodo delle alleanze nelle grandi città che dovrebbe costituire l’anticamera di una più convinta e generale convergenza politica. Zingaretti esita a candidarsi a Roma, sembra poter vincere agevolmente, se prima non viene garantito il proseguimento anche alla regione della fresca alleanza stretta con i Cinquestelle. A Napoli, la candidatura Fico, anch’essa molto promettente, potrebbe essere accolta anche dal Pd, ma solo in una cornice di preaccordo strategico sul piano nazionale.

Anche al centro dello schieramento politico nulla si muove. Avevamo segnalato un mese fa la nascita di un coordinamento tra le forze liberal-democratiche con la costituzione di un comitato programmatico guidato da Carlo Cottarelli. Poi è calato il silenzio, probabilmente dovuto ai misunderstanding sottesi a questa iniziativa. Calenda e Bonino l'hanno favorita, ma forse più per bloccare l’arrivo di Renzi che non per intima convinzione di passare a Cottarelli lo scettro del comando. Renzi non l’ha presa neppure in considerazione, forse troppo impegnato nella sua opera di personale diplomazia internazionale, nel mondo e soprattutto nel Medio Oriente.

In questa situazione, c’è chi ventila la possibilità di un rapido trasferimento di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Un’ipotesi che sembra un film dell’orrore, soprattutto agli occhi di tutte le cancellerie occidentali. La dottrina Biden di ricondurre a più miti consigli le velleità espansionistiche russe e cinesi, trova in Draghi un pilastro cui nessuno vorrebbe rinunciare. In sede europea molti, in vista dell’uscita di scena di Angela Merkel, guardano a Draghi come al leader capace di rendere permanente la nuova linea di pensiero da cui è nato il Recovery Fund.

Ha scritto di recente Eugenio Scalfari quanto sia importante per il Paese avere alla guida Mattarella e Draghi. Siamo perfettamente d’accordo con lui.

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