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Politiche keynesiane e sprechi: il Governo al bivio

Fin dall’inizio della pandemia ci si è resi conto che la crisi economica avrebbe imposto agli Stati di svolgere un ruolo significativo. Fra i primi in quest’opera di sdoganamento vi è stato Mario Draghi con un intervento sul Financial Times che in un certo senso ha segnato la linea alla quale si sono attenute in questi mesi le autorità monetarie e le istituzioni politiche europee.

L’Italia ha imboccato immediatamente questa strada declinando l’intervento pubblico in tre modi diversi che si sono sommati fra loro. Vi è stato un intervento pubblico volto al sostegno dei redditi delle categorie colpite dalla pandemia: famiglie, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, professionisti e imprese. Vi è stato l’annuncio, per ora non concretizzatosi, di una maggiore spesa per opere pubbliche. Vi è stato infine un maggiore intervento dello Stato nelle imprese in casi come l’ILVA, l’Alitalia, le Autostrade ed oggi nella fibra ottica.

Questa bulimia di interventi ovviamente non ha tenuto conto della necessità, cui più di recente ha fatto riferimento lo stesso Mario Draghi - forse preoccupato per avere, per così dire, dato la stura alla crescita incontrollata della spesa pubblica - di tener conto che i debiti vanno ripagati e che dunque solo le spese pubbliche produttive possono giustificare l’aumento dell’indebitamento. 

Si tratta quindi ora di mettere un certo ordine nella situazione, perchè in realtà i tre interventi sono molto diversi fra loro ed hanno riflessi diversi sulla finanza pubblica del futuro, cioè sulla sostenibilità del debito. 

Gli interventi del primo tipo sono di breve respiro e possono servire solo ad evitare che la situazione economica si avviti verso il peggio, ma non aiutano a fare ripartire l’economia.

Gli interventi del secondo tipo, che possono essere definiti “keynesiani”, hanno la caratteristica di poter mettere d’accordo tutti: i lavoratori perché aumentano l’occupazione diretta e indiretta; le imprese perché aumentano la domanda diretta e indiretta e in quanto produttrici di investimenti pubblici ricevono opportunità di lavoro. Le politiche industriali invece modificano i rapporti di mercato perché favoriscono certe soluzioni e ne sfavoriscono altre. Non è detto che abbiano effetti positivi sull’occupazione: se sono interventi di razionalizzazione possono anzi ridurre il volume dell’occupazione. In questi casi è anche molto più difficile decidere quale sia l’interesse dello stato. E’ infine molto più forte il rischio che lo stato venga catturato dagli interessi economici, e cioè che finisca per intervenire a favore di alcuni uni econtro altri non perché questo sia nell'interesse dello Stato, ma solo perché gli interessi più forti riescono a farsi ascoltare dal mondo politico e tendono a prevalere.

Il paradosso della situazione politica italiana è che le due principali forze di governo, il PD e i 5stelle sono in conflitto totale su questi temi. Il PD, pur avendo accettato gli interventi di emergenza e pur non escludendo il ricorso alle politiche industriali, guarda essenzialmente ad interventi di tipo keynesiano in particolare per quanta le opere pubbliche. I 5 stelle invece prediligono in linea generale i sussidi; aborrono i programmi di opere pubbliche contro le quali hanno sempre raccolto e raccolgono tutti i tipi di obiezioni (vedi TAV, TAP etc.); preferiscono semmai invocare l’intervento diretto dello Stato giustificandolo con qualche riferimento generico alle politiche industriali.

Per ora il governo Conte si è limitato a finanziari tutti i tre tipi di intervento, senza procedere ad alcuna scelta. Difficilmente potrà evitare di dire qualcosa di preciso in futuro. Bisognerebbe scegliere, ma non si vede chi possa costringere il Governo alla scelta.

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