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Presidenziali francesi, i dilemmi della destra

Lettera da Parigi


A posteriori, la scelta della data è apparsa quanto meno incongrua. Evidentemente, quando Marine Le Pen aveva convocato per il 3 e 4 luglio il Congresso del suo partito, aveva scommesso su un successo alle elezioni regionali che avrebbe trainato senza soluzione di continuità la sua trionfale incoronazione per il quarto mandato consecutivo alla guida del Rassemblement National (RN).

Così non è stato. Lo smacco subito sul piano nazionale, con le vistose sconfitte di tutti i suoi candidati – in particolare quelli di “apertura al centro” nelle regioni Paca e Hauts de France – e l’emorragia di voti inflitta alla destra estrema, avrebbero meritato una più meditata riflessione e almeno qualche ritocco di sostanza alla linea politica sinora adottata.

I tempi ristretti imposti dal calendario, e l’esigenza di fare comunque buon viso a cattivo gioco, hanno costretto il RN ad una messa in scena che è apparsa anche agli osservatori meno caustici intrisa di vecchi luoghi comuni, sprovvista di passione politica e priva di ogni spunto di novità, quanto agli orientamenti futuri e all’impostazione della campagna presidenziale. L’evento, come previsto, si è svolto a Perpignan, principale centro urbano governato dal RN e roccaforte del sindaco Louis Aliot, colonna storica ai vertici del Partito sin dai tempi del Fronte Nazionale.

Dal podio del Congresso che l’ha confermata, malgrado tutto, nel suo incarico di Presidente con una maggioranza bulgara di soli pochissimi punti inferiore al 100%, Marine Le Pen non ha avuto altra scelta che rivendicare con fierezza l’opportunità delle scelte adottate e reiterare l’intendimento di proseguire nella sua opera di modernizzazione e di apertura del partito. Ha ribadito in particolare che il vecchio Fronte Nazionale del padre Jean Marie è definitivamente morto e sepolto (pur costituendo un orgoglioso retaggio di idee e di priorità che rimane incontestato); ed è tornata a preconizzare il proseguimento di quella (almeno pretesa) svolta moderata che pure sembra essere stata la principale ragione della sua sconfitta il 27 giugno.

In buona sostanza, il Congresso è valso essenzialmente a serrare le fila ed a mostrare ai militanti il pugno di ferro con cui il partito continua ad essere gestito dal clan Le Pen, mettendo la sua Presidente in sicurezza per l’anno avvenire. E questo con una scarsità di proposte sostanziali e con il ricorso – oramai un po’ trito – al vecchio armamentario “sicurezza-immigrazione-ridistribuzione del potere a livello territoriale” che sembra escludere qualche avanzata programmatica idonea ad adeguarsi ai tempi e al confronto con i potenziali avversari, da Macron, naturalmente, fino agli aspiranti alla nomination della destra classica.

Se questa tattica consente in effetti a Marine Le Pen di tenersi le mani libere per giocare la sua partita personale in funzione degli avversari che si troverà di fronte, non è sfuggito alla maggioranza dei commentatori che, rispetto al passato, il suo programma di fondo, impoverito di ogni argomento atto ad infiammare gli animi (dalla sotterrata ascia di guerra populista della lotta all’euro sino alle sfumature aperturiste nei confronti dell’Islam “non politico”) finisce col ridursi ad una mera cosmesi di immagine e di comunicazione. Ivi compresa la lustra di un’alleanza intereuropea, di fatto impossibile, fra i movimenti di stampo sovranista, qui sbandierata per soddisfare le istanze più irriducibili contro l’UE.

Tuttavia, il Congresso ha confermato che il Partito continua a poter contare su un forte radicamento territoriale e che malgrado la flessione subìta rimane praticamente il primo per eletti locali su scala nazionale: ciò permette a Marine Le Pen di guidare tuttora i sondaggi per il primo turno delle prossime presidenziali, con percentuali che superano ancor oggi quelle di qualsiasi suo competitor a destra e dello stesso Presidente uscente.

Sul piano della gestione, non è difficile rilevare dai nomi dei pretoriani della guardia ravvicinata, come la Presidente abbia blindato il suo entourage: Vice Presidente vicario (che la sostituirà al vertice del RN per tutto il tempo della campagna presidenziale) è stato nominato il delfino Jordan Bardella. Se si tratta di una scelta in linea con le tendenze più moderate di apertura al centro, malgrado lo smacco da lui subito in Ile de France, non sfugge a nessuno che il giovanissimo deputato europeo è anche il fidanzato-convivente della nipote Nolwenn, figlia della sorella primogenita della Presidente. È stato inoltre confermato l’altro Vice Presidente, appunto il Sindaco di Perpignan Louis Aliot che di Marine Le Pen è stato il compagno fino al 2019. Insomma, scelte che destano l’interesse delle cronache che qui si definiscono “people” (rosa o VIP), ma che non sembrano intaccare più di tanto l’incondizionato favore che i militanti irriducibili nutrono nei confronti dell’ex Fronte Nazionale. I dubbi maggiori riguardano, invece, l’asserito ammorbidimento della linea dura, specie con le distinzioni tra islam religioso e politico, che viene rimproverata a Marine Le Pen non solo da molti suoi seguaci, ma – evidentemente a fini strumentali – persino dal Ministro dell’Interno Darmanin.

L’inquietudine suscitata dall’attendismo della Le Pen torna a costituire un tema di riflessione – quasi un rompicapo – per i Républicains e i movimenti a loro apparentati. La tradizione voleva che il processo di selezione del candidato presidenziale facesse soprattutto i conti con la contrapposizione frontale alla sinistra ed al suo campione potenziale (stavolta entrambi avvolti in una perdurante nebbia di incertezza, se non di forfait annunciato). Le linee programmatiche della campagna presidenziale dei Républicains erano quindi in qualche modo tracciate in partenza e si articolavano fra loro con distinzioni più vicine a delle sfumature che non a vere divaricazioni di dottrina o di ideologia.

L’essere tornati in lizza, ed in maniera prepotente con l’indiscusso successo alle regionali, postula paradossalmente, insieme ad evidenti imperativi, alcune aggiuntive complicazioni. È chiaro che il Partito neo-gollista non può che rivendicare fieramente il ruolo di protagonista che l’orientamento maggioritario del Paese – pur al netto della massiccia astensione – gli reclama. Ma la scelta di un solo candidato, o meglio di un candidato unitario, è stavolta più complessa che mai.

Mancano le personalità indiscusse del passato, quali Chirac e lo stesso Sarkozy, mentre i primi sondaggi del dopo-regionali indicano nettamente in testa, rispettivamente al 18 ed al 14%, due aspiranti che al Partito non appartengono più, pur rimanendovi apparentati, rispettivamente Xavier Bertrand e Valérie Pécresse, con “dinamiche” per entrambi in fase ascendente. Il terzo “incomodo” è l’ex Segretario dell’Ump Laurent Wauquiez, mentre gli altri esponenti ortodossi del neo-gollismo, quali Michel Barnier, rimangono fortemente distanziati nelle preferenze di opinione, tanto degli aderenti al Partito che dei francesi in generale.

Mentre Pécresse è più guardinga e tiene per ora le carte coperte (circostanza che alimenta presso gli osservatori persino alcune ardite speculazioni attorno a ipotizzabili intese future con la maggioranza presidenziale), Bertrand non lesina apparizioni frequenti e ripetute sui media e dichiara apertamente che, con o senza l’investitura del suo ex-Partito, è fermamente deciso a lanciarsi nell’avventura, fidando sul fatto compiuto. Ma soprattutto su prime proiezioni statistiche che gli attribuirebbero il sopravvento su Macron nel caso di un ballottaggio.

Ma è proprio qui che il gioco si fa ancor più complesso e rischioso. Bertrand è uscito dal Partito rivendicando una sua autonomia di idee e di programmi relativamente fumosa (in armonia con un profilo personale di bonomìa popolaresca giudicato poco carismatico). Vi si stagliano soltanto spunti propri all’antico gollismo sociale, con forti aperture di sostegno alle rivendicazioni sindacali, di cui si è fatto interprete come Presidente di Regione. Un orientamento, questo, osteggiato da numerosi suoi antichi sodàli e che, se confermato, renderebbe difficile per lui conquistare dal serbatoio del centro destra moderato voti che per ora sono destinati a confluire sul Presidente uscente e sul suo apprezzato consuntivo economico-sociale.

A breve dovrebbe delinearsi la decisione dei Républicains sulla scelta del metodo di selezione del loro candidato, e quindi su possibili primarie nel perimetro esclusivo degli iscritti al Partito o in alternativa, in quello allargato alla “famiglia” neo gollista intesa in senso lato. Ed il dilemma che accompagna questa decisione è quello di compiere una scelta che valga soprattutto a sottrarre consensi a Macron, presentando una distinzione programmatica rispetto alla chiara linea governativa interpretata per conto del Presidente dall’ex neo-gollista Le Maire al Tesoro. Ovvero di pescare nell’elettorato di destra più conservatore, cogliendo lo spunto della flessione registrata dal Rassemblement National.

I primi posizionamenti dei principali leaders, resi pubblici per mezzo di una lettera aperta al Figaro, sembrano confermare le laceranti divisioni tuttora esistenti in seno al Partito, la neppur troppo velata intenzione di far sbarramento alle ambizioni di Bertrand (non molto amato in seno ai LR, e avversato, si dice, soprattutto da Sarkozy) e la difficoltà persino a raggiungere in tempi brevi una intesa sul metodo da seguire. Sembra per ora prevalere, al di là della parola d’ordine di facciata (unità e rapidità) una tendenza a non decidere prima di settembre, mentre i sostenitori di Bertrand vengono messi in mora, come è accaduto giorni fa con la brusca rimozione dall’incarico di numero due del partito, quel Senatore Peltier che aveva spinto fino a poco tempo fa per un’apertura all’ex Fronte Nazionale e che poi – forse per farsi perdonare la sua infelice sortita – aveva deciso di schierarsi a fianco dello stesso Bertrand.

I giochi sono quindi tutti aperti e si delinea una fase di nuove incertezze e di nuove aspettative sulle quali si vanno forgiando le strategie dei partiti e quella, ancora coperta dal riserbo impostogli dalla sconfitta del 27 giugno, del Presidente uscente di cui ancora non conosciamo la decisione finale circa la sua intenzione di ricandidarsi.

Emmanuel Macron prosegue con imperturbabile serenità nello svolgimento delle sue funzioni e nel disbrigo della sua fitta agenda interna e internazionale: nei giorni scorsi, tra un impegno e l’altro con il Presidente Mattarella in visita a Parigi, si è lungamente intrattenuto con i sindacati sul tema del possibile rilancio della riforma delle pensioni, anche a costo di modificarne radicalmente il progetto originario. Quel che rimane da determinare è se farne l’ultimo fulcro di questo scorcio di quinquennio o, invece, cominciare a lanciarla quale nucleo portante della piattaforma programmatica del prossimo mandato.


l’Abate Galiani

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