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Primi fermenti di campagna elettorale in Francia

Lettera da Parigi


L’opprimente sipario che – con l’attenzione quasi ossessivamente riservata dai media alla pandemia – aveva sinora occultato la vita politica, nel suo dipanarsi in atti e scene cadenzati, si va in questi giorni dischiudendo sempre più nettamente.

Si moltiplicano infatti segnali di fermento e prime manovre tattiche che sembrano anticipare più articolate strategie, fino a prefigurare gli assetti veri e propri della campagna elettorale; anzitutto in vista della imminente scadenza delle Regionali su scala nazionale, fissata oramai per fine giugno, ma anche (e soprattutto) della « madre di tutte le battaglie » quella dell’elezione presidenziale, nel maggio del prossimo anno. E che la prima sia propedeutica alla seconda, lo evidenziano sia la messa a punto di un nuovo modus operandi (che si adatta anche « creativamente » alle severe restrizioni sanitarie in vigore) sia le prime « sortite » di merito specie da parte dei principali attori della maggioranza (con l’avvio in rete di video-messaggi ad opera della République en marche) e degli antagonisti della destra e della sinistra radicale, accomunati anche stavolta da un approccio populista, aggiornato agli umori del popolo di Internet e dei « réseaux sociaux », come vengono qui definiti i « social media ».

Più cauta risulta invece la linea seguita dagli schieramenti tradizionali, ancora alla ricerca di una trasformazione almeno di facciata della propria identità e di una innovativa presentazione mediatica, dopo la « batosta » del 2017. Il depauperamento subito in uomini, strutture e potere e l’esodo di molti antichi componenti lasciano loro, in effetti, angusti spazi di risorgenza e di iniziativa.

Prevale più che mai il carattere di « braccio legislativo » subordinato al Presidente che al Parlamento è riservato dall’essenza stessa della Quinta Repubblica, accentuato dalla trasformazione « referendaria » in quinquennato del mandato settennale iscritto originariamente in Costituzione dal suo fondatore..

Certo, alcune elezioni intermedie, in particolare le scorse Regionali, con la loro cadenza quadriennale, hanno ridato un po’ di fiato ai partiti classici, soprattutto alla destra liberal-conservatrice. Ma l’Assemblea Nazionale (la nostra Camera dei Deputati) è rimasta sostanzialmente bloccata attorno al monolite della maggioranza, una sorta di « normificio » al servizio dell’Esecutivo. Così, per l’opposizione, l’emiciclo del Palais Bourbon rappresenta più che altro una platea oratoria per i più stagionati tribuni (i grandi « tenori della politica », come li si definisce qui) che si esercitano sistematicamente nel tiro al bersaglio contro il Presidente. Dal canto suo, alla Camera Alta, il Senato, (come noto qui designato da « grandi elettori », rinnovato parzialmente a scadenza differenziata rispetto all’elezione presidenziale, e quindi munito di un equilibrio meno favorevole al Partito del Presidente) la maggioranza assoluta è stata persa per strada dalla « République en marche ». Ne consegue che il Luxembourg (sede del Senato) può svolgere più efficacemente la sua funzione legislativa, peraltro limitata, ma si vale, con l’astuzia ben rodata dei suoi più stagionati e navigati componenti, soprattutto dello strumento delle commissioni di inchiesta, con l’obiettivo principale di additare alla pubblica opinione vere o presunte manchevolezze dell’Esecutivo, ampiamente amplificate dai media.

Un quadro che finisce così per esasperare - specie nel susseguirsi di crisi anche acute come quelle verificatesi negli ultimi tre anni – un clima di implacabile confrontazione, talvolta lontano dalla sana dialettica democratica ed avverso ad ogni compromesso attorno a punti programmatici ed a riforme che potrebbe, teoricamente, coagulare di volta in volta il consenso attorno ad alcuni spunti di condivisione; alla stregua di quanto accade secondo le migliori tradizioni parlamentariste. E che un po’ di nostalgia per una più ampia propensione alla mediazione ed agli accordi superi lo stesso attaccamento dei francesi al modello semipresidenziale, è dimostrato dal velato senso di rimpianto per i periodi della coabitazione, che caratterizzarono le due Presidenze « lunghe » di Mitterrand e di Chirac. Tanto da far ricordare, come un precedente di cattivo auspicio anche per la sorte futura di Emmanuel Macron, la circostanza che nessun Presidente uscente che non ne avesse sperimentato difficoltà e benefici è riuscito a farsi rieleggere.

Fra le iniziative emerse negli ultimi giorni, va segnalato, nell’arcipelago frammentato della sinistra, l’invito del principale dei leaders ambientalisti Yannick Jadot – lo stesso che aveva guidato i Verdi al significativo successo nelle ultime elezioni per il Parlamento europeo – ad un foro di dibattito aperto a tutti gli esponenti della Gauche, destinato a sondare le eventuali possibilità di individuare un candidato comune. Dell’idea di Jadot si è fatto un gran parlare, ma, a cose fatte, attorno allo svolgimento della riunione è subito calata una cortina di scetticismo e di indifferenza, a fronte di quello che appare uno sforzo inane e destinato comunque a fare « cilecca ». L’estrema debolezza del Partito socialista, esangue e sempre meno incisivo fin dal « gran rifiuto » di François Hollande nel 2017, si somma infatti alle divisioni laceranti in seno alla galassia ambientalista, malgrado le vistose affermazioni « verdi » alle ultime comunali, con la conquista di città importanti come Strasburgo e Bordeaux. Si continuano quindi a « rimasticare » nei boatos mediatici, ipotesi di possibili federatori che appaiono già un po’ trite, con riferimenti a personalità per lo più provenienti dal PS ma aperte alla causa Verde, come la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, o l’immarcescibile Ségolène Royal, sconfitta contendente di Sarkozy nel 2007 e aggiornatasi alla causa ambientalista, da ultimo in un effimero « flirt » con Macron. Quanto ad una ipotetica « onda verde », che potrebbe assorbire i voti dei tanti elettori incerti distogliendoli da una vocazione ad astenersi o a votare scheda bianca, nelle gazzette e nei talk shows domina per ora lo scetticismo. Ci si sofferma invece, non senza sarcasmo, su alcune macroscopiche gaffes, quali il ripudio dell’Albero di Natale, perché epitome dell’abuso violento del patrimonio boschivo o la chiusura di aeroclubs di amatori, diseducativo per le più giovani generazioni indifferenti alla tutela della qualità dell’aria, enfaticamente esposte dai nuovi Primi Cittadini verdi di Bordeaux e di Poitiers, Con minore ironia, ma uguale veemenza, infuria ancora la polemica innescata attorno al permesso di costruire che la neo-sindaca verde di Strasburgo intenderebbe concedere per l’edificazione della più grande Moschea dell’Esagono. Un progetto faraonico che sarebbe finanziato, in parte almeno, da associazioni islamiche di ispirazione turca, proprio nella città che è sede del Parlamento Europeo e che è rimasta recentemente ferita da uno dei più efferati episodi dell’ondata terrorista dello scorso anno.

Altrettanto improbabile appare una rimonta di Jean Luc Mélenchon, precipitato in tutti i sondaggi ad un massimo del 12 per cento da quel lusinghiero 20 per cento che ne aveva coronato la campagna nel 2017, assicurandogli il terzo posto al primo turno, con la retrocessione imbarazzante dei candidati della destra (Fillon) e della sinistra (Hamon), entrambi esclusi dal ballottaggio ed archiviati dalla vita politica attiva.

Siamo quindi ancora una volta in presenza – almeno nella fase attuale – dello scontro frontale fra i due principali « mattatori »: il Presidente Macron e Marine Le Pen, ringalluzzita da favorevoli risalite di popolarità, malgrado i malumori interni al suo Partito anche per le catastrofiche condizioni finanziarie in cui verserebbe il « Rassemblement National ».

Non stupisce più di tanto, quindi, che i primi assaggi di confronto si concentrino sulla tematica generale della sicurezza interna, nella sua duplice declinazione della lotta alla criminalità ed al radicalismo di matrice islamica. In quest’ultima si ravvisa ormai più esplicitamente una minaccia immanente all’incolumità dei cittadini e la concausa della crescente erosione della stessa coesione sociale.

Mantenendo per ora le già menzionate riserve sulla sua intenzione finale di ricandidarsi, Macron ha dato sostanzialmente avvio alla campagna facendo ricorso alla panoplia di audacia e schiettezza espositiva, unita ad una capillare ed altamente visibile attività di presenza sul terreno su cui si fondò in pochi mesi la sua straordinaria ascesa del 2017. Anche i successivi, almeno parziali, recuperi di popolarità hanno seguito le stesse dinamiche, con il ricorso, per esempio, alla maratona del Grand Débat, l’inedita « cavalcata » durata oltre tre mesi attraverso la Francia per illustrare « dal vivo », ma con l’abile ausilio di dirette televisive, l’essenza delle sue idee e il merito del suo operato per la « trasformazione della Francia », dichiarato obiettivo della sua discesa in campo e del suo ambizioso piano di riforme. Entrambi malmenati dalla grave crisi di fiducia nei suoi confronti, innescata dai Gilets Jaunes. Se il formato non è nuovo, la sostanza delle argomentazioni sembra fondarsi stavolta sul tentativo – forse impari nell’era dei social media - di documentare con la meditata analisi dei fatti i risultati già raggiunti e quelli da conseguire in futuro. Giocheranno ancora una volta il carisma e la capacità di persuasione dell’uomo, oggetto - un po’come il Bonaparte Primo Console - di sconfinata ammirazione o di contrapposta detestazione.

In tema di sicurezza nazionale, Macron si è in particolare soffermato sulla Legge già approvata dal Parlamento contenente nuove misure a beneficio delle forze dell’ordine e sulla stretta finale in seconda lettura al Senato di quella sulla lotta contro il « separatismo » e sulla tutela dei principi fondanti della Repubblica. Quest’ultima, ancora controversa, rappresenta tuttavia agli occhi della pubblica opinione, un riconosciuto primo tentativo organico di arginare l’estremismo di radice islamica e di superare le divaricazioni ideologiche economiche, culturali e sociali subentrate nella società francese, dopo decenni di esitazioni e di retromarce. Con un corollario di superamento delle spinte non di rado opportunistiche del « buonismo » politico originato dalla sinistra ma poi dilagato trasversalmente: qui definito con l’espressione alata, ma non meno critica, l’« angélisme ». In immediata sequenza e con l’ausilio di due influenti membri del Governo, il giovane e determinato Ministro dell’Interno, Gérard Darmanin, ed il più navigato ma atipico Guardasigilli, Dupont- Moretti, si preparano nuovi e continuati seguiti dell’iniziativa presidenziale, specie in materia di riforma di una Giustizia penale piuttosto anchilosata ed immobilista. Proprio alcuni recenti « faits divers » di violenza urbana hanno suscitato clamore mediatico e ondate di protesta popolare, anche e soprattutto per la gestione che ne è stata fatta nei tribunali, dopo l’intervento delle forze dell’ordine.

Come era prevedibile, di fronte a queste « sortite » del Presidente è subito comparsa, a contestarne la fondatezza e a denunciarne polemicamente l’inefficacia, Marine Le Pen, cui i media hanno riservato spazi e formati inusuali di principale contraddittore di Macron. I toni della sua ultima apparizione televisiva apparivano ispirati all’esigenza di distanziarsi da ogni altro « competitor » ponendosi su un piano più aulico ed elevato. Poco di nuovo, nella sostanza, se non quello di un passo in avanti verso un superamento della tentazione « chiracchiana », pur serpeggiata nella pre-tattica della Le Pen, a moderare il proprio radicalismo di origine trasformandolo gradualmente in senso « nazional-popolare ».

Per concludere su una nota diversa, non posso sottacere un fatto di cronaca nera che nei giorni scorsi ha dominato quotidiani, talkshow e media elettronici e messo a rumore l’intera Francia. Si tratta del rocambolesco rapimento di una bambina di cinque anni da parte della madre, che ne aveva perso la potestà genitoriale. Dopo cinque giorni di affannose ricerche e di indagini, le due fuggiasche sono state ritrovate in Svizzera, mentre l’inchiesta ha potuto accertare la meticolosa organizzazione della fuga (che aveva per meta finale la Russia) e l’implicazione di una vasta rete di complici. Sin qui, un « fattaccio » non diverso da altri...

Quel che ha destato allarme e stupefazione è la personalità dell’ideatore ed organizzatore del rapimento, un personaggio « borderline » tra il mitomane e l’agitatore politico nei confronti del quale pende un mandato di cattura internazionale. Ricusando sdegnosamente la denominazione di Guru e quella di setta per i suoi accoliti, dalla clandestinità ha rivendicato le sue responsabilità, definendosi leader di una corrente complottista di estrema destra, impregnata di dottrine survivaliste e negazioniste che si prefigge di abbattere con ogni mezzo l’attuale sistema democratico colpevole a suo dire dell’inarrestabile declino della Francia di oggi. Dal video da lui inoltrato ai media e dalle inchieste ancora in corso, sembra confermarsi non solo l’ispirazione, ma anche qualche collegamento organico, con il movimento Qanon negli Stati Uniti, quello, per intenderci che ha fatto da megafono alle più estreme teorie trumpiane, fino all’assalto di dicembre a Capitol Hill... Auguriamoci solo che l’episodio sia stato sopravvalutato e che non istilli nuova venefica linfa nel populismo sovranista di ogni segno politico.


l'Abate Galiani

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