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Quasi un anno dall’assalto al Campidoglio

Lettera da Washington


Presto sarà passato un anno da quel freddo giorno di gennaio che ha visto l’inimmaginabile, l’assalto al tempio della democrazia americana indotto da americani intenti a strappare ad ogni costo una vittoria politica che le urne avevano negato. Quel giorno, la fiaccola della Statua della Libertà, a New York, omaggio di una rivoluzione ad un’altra, deve aver tremolato. Ma non si è spenta, e la Costituzione ha vinto, di misura, ma ha vinto; e ora deve continuare a vincere, perché esistono nel paese focolai di rabbia capaci di scatenarsi ed avere nel futuro il successo che questa volta è mancato.


È un rischio anzitutto per gli Stati Uniti, ma preoccupa a buon titolo gran parte del resto del mondo. La guida è nelle mani di un governo animato da buona volontà e formato dai migliori rappresentanti del paese, ma basterà? Questi mesi non sono stati pienamente rassicuranti e l’anno che sta per incominciare sarà decisivo. Il fatto è che il governo dovrebbe essere più che mai convincente, ma stenta ad esserlo: non è un giudizio sulla squadra di Biden, né sul Presidente (che ha superato le aspettative di molti); non manca la capacità di tracciare la rotta, ma la via è costellata di trabocchetti. Ne indico due, uno sistemico ed uno, direi, storico.


Anzitutto, esiste una difficoltà inerente al sistema: la filosofia dei “checks and balances”, il principio guardiano della democrazia americana e pertanto il fiore all’occhiello degli americani, produce un'architettura di freni, ma non è un motore. Come tale ha salvato gli Usa da quella che poteva essere la incombente dittatura di un cacique del tipo di quelli che si usava una volta in alcuni paesi “bananiferi”; tale è stata la forza di questa democrazia che alla fine è mancata ai suoi possibili assassini l’audacia di vibrare il colpo fatale. Ma ora si stenta a consentire al Presidente legittimo di fare ciò per cui è stato eletto, cioè governare. Non entro qui nelle arcane vicende dei sistemi di voto o dell’effetto di vulnerabilità esercitato sull’esecutivo dai lunghissimi periodi di preparazione delle elezioni, per cui qui in America non c’è quasi più separazione tra un periodo elettorale e il successivo.


Biden ha fatto la sua parte presentando al paese un programma ambizioso: è stata la risposta corretta, per riparare all’erosione dello stato federale operata nei quattro anni di Trump, e per recuperare il tempo perso da una amministrazione che si era autoesclusa dalla cooperazione internazionale. È stato anche il segnale che l’America stava tornando alla ribalta. Trump ha lasciato la Casa Bianca attorniata non più da amici e alleati, ma da lupi che studiavano la situazione con l’intenzione di approfittarne. Purtroppo gli autogol, come la sconclusionata evasione da Kabul, non aiutano. E infatti, il consenso nazionale per Biden è crollato al minimo in novembre e stenta a risalire. Nelle vie delle città, si affaccia il timore che la politica espansionistica del governo conduca all’inflazione; mentre l’indice ufficiale ha raggiunto il 6,8%, il riferimento più popolare, il prezzo della benzina alla pompa, è oggi una volta e mezzo quello di un anno fa. La necessità congiunturale di contrastare gli effetti della pandemia sull’economia del paese ha condotto ad assumere qualche rischio, ma ha avuto successo; il livello della disoccupazione è sceso al minimo di vent’anni.


Invece, il grande programma interno di Biden resta nel limbo, ostaggio di due senatori del suo stesso partito, e questo non è uno stato che possa prolungarsi a lungo senza ripercussioni. A novembre, tra undici mesi, si torna alle urne per rieleggere l’intera camera dei rappresentanti. I Repubblicani si sono preparati: poiché il processo elettorale è largamente nelle mani dei singoli Stati, e in molti di essi il GOP è al governo, da mesi hanno lavorato per creare condizioni contrarie all’afflusso dei votanti nei gruppi demografici tendenzialmente avversari. Considerando che le previsioni sono comunque sempre a sfavore di chi sta alla Casa Bianca, la probabilità è che i Democratici perdano la maggioranza alla Camera senza rafforzare quella del Senato. Le conseguenze di simili sviluppi comporterebbero che il resto della presidenza Biden si potrà scrivere sul retro di una busta, come è accaduto con Obama.


Il secondo fattore che si trova alla radice delle vicende sfavorevoli al Presidente, attiene a una ambiguità mai completamente risolta: la divergente maniera di concepire il ruolo del governo nella visione delle due componenti storiche più significative del popolo americano, composte da strati di nuovi cittadini provenienti da molte nazioni, senza che si riesca ad arrivare ad una vera fusione.


Nemmeno i padri della patria avevano voluto creare un sistema unitario; hanno cominciato infatti da una confederazione, come ben sappiamo, e solo gradualmente e con cautela si è arrivati all’Unione. Quando si parla di “checks and balances” si pensa ai rapporti tra i rami del governo: nessuno dei tre classici rami deve dominare gli altri. Ma lo stesso principio, in verità, vale anche per gli Stati dell’Unione, e il motivo è la loro diversità. Fuggiti dall’Europa non solo per far fortuna, ma anche per affermare la loro scelta di vita, gli americani si spartivano secondo due diverse concezioni della società, una più legata al concetto di solidarietà e di compattezza sociale, l’altra incline ad affermare la prevalenza dell’individuo e il suo rifiuto di qualunque tutela. Troviamo queste caratteristiche anche nella Guerra di secessione; a quel tempo le due opposte ideologie prevalevano in due zone distinte. È per questo che Dixie è più romantico, ma siamo contenti che abbia vinto il Nord. Oggi le vestigia di questa contrapposizione sono parte del bagaglio storico del paese, ma vivono ancora nella visione di molti cittadini americani. Non è più geografica, ma resta la cesura più evidente, ed è abbastanza determinante da riflettersi nelle scelte dei partiti.


Si è infatti costruita una nazione che parla la stessa lingua e combatte le stesse guerre, anche se, dalla metà del secolo scorso in poi, molto è cambiato. Il mito del crogiolo americano, dal quale esce un metallo speciale creato dalla miscela non più distinguibile di tante terre diverse, è appunto un mito. Non c’è stata fusione, ma piuttosto diffusione. La lega che esce dall’insieme di queste culture è variopinta, arricchisce il paese ma ne complica la politica, creando isole di “interessi speciali” come il mondo degli esuli, cubani, cinesi, vietnamiti e ora venezuelani e centramericani. Perciò è più difficile oggi governare in presenza di queste miriadi di diversità: cinquanta milioni di americani sono immigranti, un quinto del numero mondiale, e diventano cittadini – e poi votano - al ritmo di quasi un milione all’anno.


Non tutti vivono serenamente questa ricca diversità e la società che ne è scaturita. Un certo numero di americani che la rifiutano si sono riuniti in milizie armate, cosa non impossibile quando circolano quasi quattrocento milioni di armi da fuoco in mano a civili; dieci volte di più per abitante che in Afghanistan. Per lo più queste milizie sono velleitarie ma - finora - inoffensive. Altre, che rispondono a titoli altisonanti come “Oath Keepers”, e “Proud Boys”, sono apparse alla ribalta il 6 gennaio – giorno dell’assalto dei sostenitori di Trump al Campidoglio – e ora sono a loro volta nel mirino. L’esistenza di queste forze potenzialmente distruttive è stata probabilmente sottovalutata fino a quella data. Anche adesso, mentre sta prendendo velocità l’inchiesta sugli avvenimenti del gennaio scorso e sulle responsabilità personali di Trump e dei suoi consiglieri, il punto focale riguarda l’apparato politico che ha scatenato quelle forze, e non le pedine sulla scacchiera di quel giorno.


L’America ha bisogno che la vicenda si concluda al più presto e in questi giorni, prima della pausa natalizia, il Congresso sta cercando di portare al banco dei testimoni il maggior numero di persone coinvolte. La debolezza porta al conflitto, sia all’estero che all’interno; la chiarezza, viceversa, potrebbe finalmente dare la misura dell’autorità di questa Presidenza.


Franklin


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