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Referendum, la montagna ha partorito un virus

Sulla Repubblica di ieri Stefano Folli ha riportato l’attenzione sui risvolti politici del prossimo referendum sulla riduzione dei parlamentari e sulla necessità che questa importante svolta della vita istituzionale del Paese non passi sotto silenzio.

Il Commento politico, con i suoi editoriali e con i contributi di autorevoli esperti, ha fatto di questo tema un asset essenziale.

Il 20 settembre non si voterà solo per decidere quanti parlamentari è opportuno avere ma soprattutto per scegliere tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta.

Nello stesso tempo il voto referendario inciderà sul faticoso percorso in essere del movimento Cinquestelle, dando forza, a seconda del risultato, all’ala movimentista o a quella più consapevole delle responsabilità di governo.

La democrazia rappresentativa, l’unica a nostro avviso meritevole di consenso, si difende anche con la memoria delle dinamiche politiche intervenute e, nello specifico, tenendo conto del contraddittorio che ha portato all’approvazione di una proposta di riforma così pasticciata e pericolosa per l’equilibrio costituzionale del nostro Paese.

La riduzione del numero dei parlamentari è stata, infatti, un’idea ricorrente nei vari tentativi di riforma costituzionale che si sono susseguiti dagli anni Ottanta in poi. In passato, però, la riduzione è stata sempre inserita in un organico disegno di adeguamento o mutamento della forma di governo e di superamento del bicameralismo paritario assoluto che caratterizza la nostra Costituzione. Oggi, invece, nella proposta approvata dalle Camere che sarà sottoposta al referendum popolare, ci troviamo di fronte ad una revisione costituzionale circoscritta alla sola riduzione numerica dei membri del Parlamento.

Non si tratta di un esito voluto. Il Contratto per il governo del cambiamento stipulato tra la Lega e il M5s prevedeva, riguardo alle riforme istituzionali, “iniziative legislative costituzionali distinte ed autonome”. Si abbandonava il metodo della grande riforma, ma ciò non significava che fosse assente un ben preciso collegamento tra alcuni degli altri interventi prefigurati. Dietro la spinta del M5s, che si è sempre fatto portatore dell’antipolitica e dell’antiparlamentarismo, il Contratto, oltre a prevedere in primo luogo una drastica riduzione del numero dei parlamentari, impegnava la maggioranza governativa a “introdurre forme di vincolo di mandato” e a potenziare la cosiddetta democrazia diretta mediante una nuova disciplina del referendum abrogativo e l’introduzione dell’iniziativa legislativa rafforzata (o referendum propositivo). Questo orientamento veniva ribadito nell’audizione sulle linee programmatiche del ministro per i Rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta Fraccaro, davanti alle commissioni congiunte Affari costituzionali della Camera e del Senato (seduta del 12 luglio 2018).

Le tre iniziative davano corpo ad un disegno di ridimensionamento, anzi di svuotamento del Parlamento. Veniva configurato un sistema di decisione alternativo alla democrazia parlamentare: legislazione affidata a referendum e controllo dei leader di partito su parlamentari ridotti di numero. Una forma di democrazia plebiscitaria che risponde alle idee del M5s.

La caduta del primo governo Conte ha interrotto la realizzazione del progetto. All’approvazione della riduzione dei parlamentari mancava l’ultima votazione della Camera, mentre per l’iniziativa legislativa popolare rafforzata vi era ancora un non breve cammino da percorrere. Sul mandato imperativo, o vincolo di mandato, non erano state presentate proposte di legge. Nelle trattative per la formazione del governo Conte 2, il M5s faceva della riduzione del numero dei parlamentari un punto irrinunciabile. Anche isolata, la riforma restava una parte essenziale del programma populista e antiparlamentare del movimento. Pd e Leu, che fino a quel momento avevano osteggiato l’approvazione della proposta, accettavano di mutare posizione e di votare a favore per poter formare il nuovo governo. Anche altri partiti si accodavano rivendicando di avere in passato proposto o votato la riduzione, sia pure nei contesti diversi di cui si è detto all’inizio. In realtà, il loro assenso era dettato anche dal timore di opporsi ad una riforma che si riteneva essere vista con favore dall’intero corpo elettorale. Si giungeva, così, ad un voto favorevole pressoché unanime.

Nel frattempo, il progetto di legge sul referendum è fermo al Senato e sembra essere stato messo nel cassetto. Nessuna iniziativa si è concretizzata sul mandato imperativo. La realizzazione del disegno contro il Parlamento e la democrazia rappresentativa è per il momento (e si spera definitivamente) interrotta, ma ci si trova ora di fronte ad un moncone che assumeva pieno significato solo all’interno di quel disegno. Come valutarlo così isolato?

Si deve partire dalla considerazione che, per quanto ristretta, la riforma ha ripercussioni sull’intero edificio costituzionale. Di ciò hanno avuto coscienza gli stessi capigruppo di maggioranza che il 7 ottobre 2019, il giorno prima dell’ultima votazione alla Camera dei deputati, hanno assunto alcuni impegni di adeguamento dell’ordinamento al possibile mutamento della dimensione quantitativa delle Camere.

In primo luogo, essi si impegnavano a presentare entro dicembre 2019 un progetto di una nuova legge elettorale. È evidente, infatti, che la riduzione dei parlamentari opera da selettore nell’accesso alla rappresentanza e mette in discussione il mantenimento della legge elettorale vigente, che è un mix tra maggioritario e proporzionale. Non vi è stato, però, nessun accordo tra i gruppi di maggioranza e per ora è stata presentata solo una proposta del presidente della commissione Affari costituzionali della Camera che prefigura un sistema proporzionale con soglia di sbarramento. L’esame in sede referente è ancora ai primi passi.

In secondo luogo, vi era l’impegno ad apportare alcuni adeguamenti della Costituzione: equiparazione dei requisiti di elettorato attivo e passivo di Camera e Senato (il relativo progetto di legge è stato approvato in prima lettura solo dalla Camera); modificazione del principio dell’elezione del Senato a base regionale (per evitare collegi troppo ampi); ridurre il numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica al fine di mantenere la proporzione con i parlamentari all’interno del collegio elettorale (si propone di ridurli a due per regione, il che pone il problema di come dovrebbero essere scelti: uno della maggioranza e uno dell’opposizione o tutti e due della maggioranza). Il progetto di legge costituzionale che contempla queste ultime due modifiche è alla Camera, ma non è stato ancora esaminato dall’assemblea.

Infine, i capigruppo di maggioranza hanno affermato che la riduzione del numero dei parlamentari implica alcuni interventi sui regolamenti parlamentari e hanno auspicato un rapido lavoro delle giunte per il regolamento di Camera e Senato. La giunta della Camera si era già riunita il 3 ottobre e, in quella sede, il presidente Fico aveva illustrato una serie di possibili riforme regolamentari collegate alla riduzione del numero dei parlamentari che l’assemblea avrebbe votato entro pochi giorni. Dopodiché la giunta non si è più riunita. Al Senato nulla è stato fatto.

I capigruppo di maggioranza si sono poi avventurati a prospettare altri interventi che possano valorizzare il ruolo del Parlamento: l’armonizzazione del funzionamento delle due Camere, la limitazione in maniera strutturale del ricorso alla decretazione d’urgenza e alla questione di fiducia, modifiche che diano certezza dei tempi alle iniziative del governo e più in generale ai procedimenti parlamentari.

Il documento dei capigruppo di maggioranza, in sostanza, costituisce l’ammissione che, se la riduzione del numero dei parlamentari fosse approvata con il referendum ed entrasse in vigore senza alcun altro intervento di adeguamento, provocherebbe degli squilibri nel funzionamento delle istituzioni costituzionali. Ma questi adeguamenti tardano a giungere. Se il referendum si fosse tenuto come previsto il 29 marzo, la riforma avrebbe potuto essere approvata definitivamente, senza avere la certezza dell’introduzione di tutte le innovazioni che dovrebbero accompagnarla. Votare la riforma in tutta fretta l’8 ottobre 2019 è stato un atto cui quasi tutte le forze politiche si sono sentite politicamente obbligate per ragioni diverse, salvo il M5s che la considerava irrinunciabile. Non è stato, però, un atto di saggezza e di prudenza se si guarda alle implicazioni che essa, per quanto circoscritta, ha sull’intero edificio istituzionale.

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