Lettera da Washington
Biden è installato alla Casa Bianca, i suoi ministri designati stanno percorrendo il faticoso iter della ratifica da parte del Senato; è passata la raffica di decreti d’urgenza mitragliati nelle prime ore del nuovo Presidente, ed è cominciata la massiccia fatica quotidiana di governare il paese.
La sinistra americana ha intanto spensieratamente ripreso la vecchia usanza di sbranarsi da sola: si brontola che alcuni tra i ministri di Biden non sono quelli giusti, che il programma di governo non va abbastanza lontano, oppure che nega le attese ricompense per chi ha tenuto accesa la fiamma: questi non sono gli attacchi degli avversari, sono attacchi dei sostenitori, che avendo vinto contro Trump, sia pure fragilmente, ora puntano i cannoni contro la nuova squadra che li rappresenta e cui hanno affidato il compito di compiere le scelte difficili che fanno parte della giornata lavorativa di un governo. La luna di miele tra moderati e radicali, all’interno del partito, non sarà eterna; e la compattezza interna sarà la prima prova di autorità per Biden e i suoi sostenitori in Congresso, e non sarà facile. Alla sua sinistra, un’occhiata ai social media indica che i giovani americani, il futuro del paese, sono attratti da figure più radicali come Alexandria Ocasio Cortez, la giovane dirompente Congresswoman di New York, e perfino Bernie Sanders, il popolare nonno socialdemocratico del Vermont.
Alla destra dello spettro politico, peraltro, questo fine settimana gli occhi si sono puntati su Orlando, in Florida, e sull’annuale convegno della Conservative Political Action Conference (CPAC), il foro tradizionale del partito Repubblicano, con la prima apparizione in pubblico di Trump dopo aver lasciato la Casa Bianca.
Il CPAC raccoglie la destra del paese, pur cercando di tenere a distanza i gruppi più radicali, ed è una istituzione che nel tempo si è affermata come foro di collaudo e di divulgazione di una ideologia conservatrice proattiva, con una tendenza missionaria che ha portato di recente il CPAC a esportare il suo modello nel mondo, dalla Corea al Brasile all’Australia e al Giappone. Questa volta, nel clima creatosi dopo le elezioni, il tono dell’incontro si distacca dal passato, non tanto per la scontata virulenza degli interventi, quanto per la trasparente finalità di riproporre la leadership di Trump alla testa della “riconquista” Repubblicana (fatto normalmente non scontato dopo una elezione fallita).
Così non vi è stato posto a Orlando per esponenti politici sospetti di essere tiepidi o peggio ancora rivali di Trump. Partecipare al CPAC di Orlando non è stata solo una scelta di campo politico, è stato anche un giuramento di rinnovata fedeltà al duce del partito.
La lista degli oratori racchiudeva il top del movimento trumpista (compreso Donald Jr., che nutre ambizioni); erano assenti gli infidi, i traditori e i rivali. Era escluso Mitch McConnell, il leader Repubblicano del Senato, che nelle ultime ore del mandato di Trump si era distanziato da lui con parole dure, nonostante il suo rifiuto di condannarlo. È stata respinta Nikki Haley, sospetta di volersi candidare nel 2024, su cui potrebbero convergere moderati ed estremisti del partito. Assente anche l’ex Vice Presidente Pence, che era stato invitato ma che comprensibilmente non se l’è sentita di presentarsi ad applaudire l’uomo che è stato a un palmo dal farlo linciare dalla folla inferocita.
Nessun sostenitore tiepido ha avuto il microfono, nessun avversario si è presentato contro, nessun rivale era presente, anche se nel partito non mancano i dissenzienti. Nel suo intervento, Trump ha recitato la lista nominativa degli eretici, additandoli al suo seguito nella nazione. Il Cremlino degli anni trenta non doveva funzionare in modo molto diverso.
La parola ora passa a ciò che resta del partito.
Una volta cementata la leadership di Trump, una aperta frattura in vista di elezioni in cui la differenza tra vittoria e sconfitta si misura in qualche decina di migliaia di voti, circoscritti a un pugno di stati, avrebbe effetti devastanti, quindi l’unitarietà è obbligata. Trump vuole presentarsi nel 2024 sostenuto da tutto il partito, e ha bisogno di unanimità. I moderati dopo questo incontro di Orlando avranno l’opzione di fare gesto di obbedienza e avallare Trump - salvando l’unità del partito - o usare il tempo che rimane del loro mandato parlamentare per distanziarsi. Con Trump presente, sarebbe una scelta eroica. Alcuni, ancorché esclusi dalla kermesse di Orlando, hanno già fatto sapere che se Trump fosse nuovamente il candidato del partito nel 2024, lo voterebbero.
C’è da chiedersi quanto valga questa consacrazione del CPAC, e la risposta non è scontata.
Il pubblico del CPAC, composto da sostenitori veterani, ha accolto bene l’ex-Presidente, ma ha lasciato anche l’impressione che non tutti fossero ugualmente entusiasti. Un sondaggio effettuato tra i partecipanti ha confermato l’esistenza di una maggioranza che lo vorrebbe nuovamente candidato; ma è sorprendente la percentuale di quanti hanno proposto invece nominativi diversi, cominciando da quello del governatore della Florida, De Santis, che evidentemente giocava in casa. L’ex Presidente ha raccolto il 55% delle preferenze, davanti a De Santis, il che non equivale a una acclamazione. Alla fine del suo intervento, le reazioni del pubblico in sala visibilmente non sono state unanimi.
Benché questa fosse una riunione di partito e non un comizio popolare (al quale avrebbero preso parte inevitabilmente anche gli scomodi estremisti del 6 gennaio), potrebbe essere un segno inatteso di debolezza. Trump ha necessità di un sostegno di massa, non solo in vista delle elezioni di qui a quattro anni, ma per tener a bada i fantasmi che lo attendono già ora fuori dalla sua villa di Mar a Lago.
Non più coperto dall’immunità presidenziale, l’ex Presidente dovrà fronteggiare tre diversi filoni di gravi procedimenti giudiziari che potrebbero compromettere la sua vita pubblica, se non addirittura risultare in pene carcerarie. Anzitutto la sua responsabilità negli eventi del 6 gennaio e l’assalto al Campidoglio; in secondo luogo il suo tentativo di sovvertire l’esito elettorale del 2020 esercitando indebite pressioni sui governi di alcuni stati, Georgia e Arkansas in particolare; infine la sua condotta per tutta la vita come imprenditore, e soprattutto come contribuente. La scelta di spostare la sua residenza in uno stato il cui governatore è un suo sostenitore non risponde solo a ragioni di clima.
Se Trump fosse incriminato in un altro stato, dovrebbe infatti essere estradato dalla Florida; e in quel frangente avere un governatore amico può essere una buona idea. Un concorrente, un po’ meno.
Franklin
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