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Spadolini e la nostra comune militanza nel PRI

Conobbi personalmente Giovanni Spadolini a Milano, in casa del direttore del Mondo, Arrigo Benedetti, nel febbraio del 1972. Pochi giorni dopo vi fu la conclusione traumatica della sua direzione del Corriere della Sera. Ebbi occasione di rivederlo nelle settimane successive nel corso della campagna elettorale di quell’anno quando egli si candidò al Senato a Milano come indipendente nelle liste del Partito Repubblicano, mentre io fui candidato alla Camera dei deputati nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli. Gi chiesi di partecipare alla manifestazione conclusiva della mia campagna elettorale a Torino e la sua presenza contribuì sicuramente a risolvere in mio favore una competizione elettorale molto contrastata in seno al partito piemontese. Spadolini, a sua volta, fu eletto trionfalmente nel primo collegio senatoriale milanese.

I nostri rapporti si consolidarono all’indomani delle elezioni. Allora abitavo ancora a Milano che lasciai all’inizio del 1973 per trasferirmi a Torino e coltivare un collegio dove per la prima volta il PRI era riuscito ad eleggere un deputato. In quei primi mesi della legislatura, che segnavano per ambedue l’inizio dell’esperienza parlamentare, viaggiavamo insieme fra Roma e Milano. In genere partivamo la mattina del martedì da Milano con l’antica carrozza Pullman dei Wagon Lits, che venne abolita qualche anno dopo, e insieme risalivamo a Milano al termine della settimana parlamentare. Sovente era con noi Antonio Del Pennino, eletto alla Camera a Milano. Fra Milano e Firenze si chiacchierava, ma soprattutto si leggevano i giornali, mentre Spadolini scriveva a grande velocità o correggeva altrettanto velocemente degli imponenti pacchi di bozze di stampa. Alla stazione di Firenze trovavamo Cosimo Ceccuti, un suo allora giovane collaboratore che oggi presiede degnamente la Fondazione Spadolini, il quale ritirava le bozze corrette e altre ne riversava nella capiente borsa del Professore.

Il tratto da Firenze a Roma era invece dedicato alla colazione che, nella carrozza Pullman, non richiedeva di spostarsi in un altro vagone. Si mangiava e si beveva allegramente insieme a uno Spadolini scintillante, nella sua sconfinata conoscenza della storia italiana del Risorgimento, degli anni dell’unità, del decennio giolittiano, ma anche delle vicende del giornalismo e della politica italiana del secondo dopoguerra. Nacque così un rapporto di profonda stima e anche di amicizia durato quasi 25 anni, cementato dalla mia collaborazione con lui come uno dei vicesegretari del partito durante gli anni della sua segreteria e come ministro del Bilancio nei suoi due governi fra il maggio 1981 e il novembre 1982. Quando, nel 1987, eletto alla presidenza del Senato, Spadolini lasciò la segreteria del PRI ed io venni eletto al suo posto, la collaborazione continuò nelle difficili circostanze politiche di quegli anni, anche se i nostri rapporti ebbero un certo raffreddamento di cui non mi resi allora conto, ma che poi divenne più evidente. Per molto tempo ho ritenuto che di questo deterioramento io non avessi responsabilità, ma probabilmente ne porto la mia parte.

L’occasione di ricordare Spadolini a trent’anni dalla sua scomparsa mi ha indotto a riflettere sui nostri rapporti e su alcune differenti valutazioni politiche che probabilmente contribuirono a scavare un solco nei nostri rapporti. Vi furono nel tempo fra Giovanni Spadolini e me, come del resto è inevitabile che sia in una esperienza comune al vertice delle responsabilità di un partito, differenti valutazioni su questioni politiche o su vicende del PRI.  Molte furono circoscritte a singoli episodi e si risolsero rapidamente, ma due ebbero una rilevante sostanza politica. È ad esse che ho fatto riferimento negli articoli che ho scritto, nel trentennale della sua scomparsa, sul Commento Politico il 2 agosto e su Repubblica il 4 agosto. Non si tratta di una riflessione a posteriori: furono questioni di cui discutemmo apertamente fra noi allora e che forse con il tempo contribuirono al nostro reciproco allontanamento, senza che questo abbia incrinato in me l’affetto e il sentimento di amicizia per Spadolini nati all’inizio della nostra conoscenza, ormai più di 50 anni fa.

La prima questione emerse al momento dell’incarico di formare il governo nel maggio 1981, affidato a Spadolini da Sandro Pertini nel pieno della crisi derivata dalla scoperta degli elenchi dei membri della Loggia P2. In quel momento ero ministro del Bilancio. Ero entrato con questo incarico nel secondo gabinetto Cossiga nell’autunno del 1979 ed ero stato mantenuto in quella responsabilità a metà del 1980, quando si era costituito il governo Forlani.

La responsabilità del Ministero del Bilancio aveva alimentato in me enormi preoccupazioni circa le prospettive economiche del Paese. L’economia privata era in pieno rallentamento. Era evidente che la famosa crisi congiunturale del ‘63-‘64 aveva dato un primo segnale di arresto della crescita economica italiana del dopoguerra e che il sostanziale rigetto, da parte della coalizione di centrosinistra ma anche delle forze sociali, delle proposte di politica di programmazione delineate nella Nota Aggiuntiva del 1962 condannava il Paese a una progressiva perdita di slancio economico, mentre erano ancora lungi dall’essere risolti i problemi della disoccupazione, della povertà, del divario fra le condizioni economiche e sociali delle zone sviluppate del Centro-Nord e le regioni meridionali. L’esperienza del Ministero del Bilancio aveva ulteriormente accresciuto le mie preoccupazioni sul versante della finanza pubblica. Il rischio, che poi si è manifestato pienamente a partire dagli anni ‘80, era che alla perdita di forza dei meccanismi spontanei dello sviluppo economico si sommassero ora i problemi derivanti da un eccessivo assorbimento di risorse da parte di un settore pubblico costoso e inefficiente. Risultava, ad esempio, chiarissimo che il sistema delle partecipazioni statali, che all’inizio del secondo dopoguerra aveva contribuito potentemente alla ricostruzione prima e al miracolo economico poi, era ormai una fonte di perdite incontrollabili e comportava oneri giganteschi per la finanza pubblica.

Come ministro del Bilancio nel governo Cossiga e nel governo Forlani avevo dovuto constatare l’enorme difficoltà di controllare la dinamica delle finanze pubbliche. Il debito pubblico non sembrava suscitare le preoccupazioni di nessuno. I partiti della maggioranza erano prodighi di provvedimenti di spesa a favore di questa o quella categoria, ma non immaginavano mai misure in grado di sostenere la crescita degli investimenti del Paese. In più, il percorso parlamentare dei provvedimenti legislativi aggravava enormemente questi problemi. Vi era in particolare la minaccia del voto segreto, che era allora la regola del Parlamento. Le opposizioni di destra e di sinistra avevano l’abitudine di presentare a getto continuo emendamenti a qualsivoglia testo legislativo che prevedevano maggiori spese o minori entrate. Si trattava di emendamenti identici nel contenuto, ma presentati separatamente, che al momento del voto segreto sarebbero stati votati compattamente dalle opposizioni, nonché anche dai “franchi tiratori” della maggioranza che, per modificare gli equilibri politici interni alla DC o per provocare una crisi di governo, tendevano a unirsi nel voto segreto alle opposizioni. Di fronte a questa situazione, i governi cedevano e concedevano se non il 100% delle spese o delle minori entrate proposte, una buona quota di esse. Il vincolo dell’articolo 81 della Costituzione era aggirato semplicemente indicando come fonte di copertura il debito pubblico, la cui parte non sottoscritta dal pubblico veniva obbligatoriamente acquistata dalla Banca d’Italia.

Quando Spadolini ricevette l’incarco della formazione del governo, pur nell’emozione per questo importante riconoscimento del ruolo del Partito Repubblicano, gli dissi che avevo molti dubbi sull’opportunità di accettare. Al massimo, sarebbe convenuto prendere l’incarico ponendo però condizioni programmatiche che gli altri partiti avrebbero respinto, tanto da poter poi rinunciare avendo delineato un severo programma di cose da fare nell’interesse dell’Italia. Espressi la preoccupazione per la condizione in cui si sarebbe trovato un presidente del Consiglio repubblicano giacché questa circostanza avrebbe finito per assecondare la già aperta prodigalità della DC e del PSI in tema di finanza pubblica e avrebbe reso queste forze ancor meno disponibili a resistere alle domande delle opposizioni. Lo stesso sarebbe avvenuto per i rapporti con i sindacati: all’uso politico spregiudicato della CGIL da parte del PCI, vi era il rischio che ora si aggiungesse un’analoga mancanza di responsabilità della CISL, che faceva capo alla DC e della UIL ormai pienamente controllata dai socialisti.

Dissi a Spadolini: un presidente del Consiglio repubblicano è un affare per i due maggiori partiti della maggioranza: DC e PSI potranno avallare tutte le manovre più spericolate ai danni della finanza pubblica, lasciando a noi la responsabilità e l’impopolarità dei pochi no che avremo la forza di opporre, ma soprattutto quella di avere firmato l’aggravamento del deficit. Questo ci verrà rinfacciato per anni. E noi che cosa potremo rispondere? In effetti, avvenne che nel primo anno del governo Spadolini il deficit balzò da 50.000 a 75.000 miliardi. Quante volte negli anni successivi ci siamo sentiti ripetere queste cifre come prova che il nostro rigore era puramente verbale!

Spadolini, che, come ho scritto, capiva tutto, dovette prendere in considerazione – ne sono certo – quelle obiezioni, sapendo che erano mosse dalla mia preoccupazione per le prospettive del Paese e dall’esigenza che, nel caso di un aggravamento della crisi, vi fosse almeno una forza politica che, non essendo corresponsabile degli errori che si stavano accumulando, potesse offrire all’opinione democratica un punto di riferimento. Ma Spadolini, che era dotato di un’energia formidabile e di uno straordinario ottimismo della volontà, ritenne di essere in grado di controllare questi pericoli e di riuscire comunque a denunciare le responsabilità eventuali di altri partiti in un aggravamento della situazione. Quando, nel novembre del 1982, egli lasciò il governo denunciando le responsabilità della DC e del PSI con le loro “liti delle comari” fra il ministro delle Finanze e quello del Tesoro, effettivamente riuscì a separare le responsabilità nostre da quelle altrui. Nelle elezioni del 1983, che seguirono di pochi mesi la fine del governo Spadolini, non subimmo conseguenze negative. Anzi, volammo in alto nei risultati superando il 5% e diventando il terzo partito alle spalle della DC e del PCI e davanti al PSI nelle maggiori città del Nord. Tuttavia a partire da quel momento, negli anni successivi, rimasti intrappolati nella riedizione del centrosinistra prima con Craxi, poi con Goria, De Mita, Andreotti, in una situazione politica marcescente, ogni qualvolta sollevavamo una questione in materia di finanza pubblica o di lotta all’inflazione, ci sentivamo rinfacciare lo sfondamento del tetto dei 50.000 miliardi o gli insuccessi nelle trattative con i sindacati per la revisione della scala mobile.

Fu Craxi, che aveva maggiore forza controllando parte della CGIL, l’intera UIL e avendo come alleata la CISL democristiana, a fronteggiare Berlinguer con il decreto legge che tagliava la scala mobile e con il successo nel seguente referendum abrogativo di quelle norme, voluto dal PCI. Il suo successo fu una condanna retrospettiva dell’insufficienza della nostra azione e così ci venne prospettata, non potendo noi spiegare che quella parte del sindacato che aveva aiutato Craxi si era ben guardata dal farlo durante il governo Spadolini.

La seconda discussione politica avvenne fra noi all’indomani delle elezioni del 1983 e del grande risultato ottenuto dal partito. Il Presidente della Repubblica conferì l’incarico per la formazione del governo al segretario dello PSI, Craxi, e questi avviò le trattative per la formazione di pentapartito, formato dai quattro partiti del centrosinistra e dal partito liberale. Si pose in quella occasione il problema se dovessimo entrare a far parte di quella coalizione o dovessimo accentuare una posizione di distacco da quella formula di governo. Potevamo invocare molte ragioni a favore di questa scelta. Fra queste, il modo traumatico con cui l’esperimento Spadolini aveva avuto fine.

Il punto essenziale era costituito dalla ripresa della formula del centrosinistra che il partito aveva considerato totalmente esaurita già alla fine degli anni ‘60. Da quel giudizio e dalla valutazione negativa delle posizioni politiche di Craxi, specialmente durante il caso Moro, era derivato il giudizio radicalmente negativo sul centrosinistra che il PRI aveva dato nell’ultimo congresso al quale aveva preso parte mio padre, quello di Roma del dicembre 1978. È vero che in quell’occasione e nelle settimane successive il partito aveva dovuto prendere atto della decisione, per noi largamente incomprensibile, di Enrico Berlinguer di rinunciare di colpo a una linea politica alla quale aveva lavorato con continuità per molti anni. Se ne ebbe una conferma all’inizio del marzo del 1979, quando il PCI rifiutò di riconoscere il carattere di novità che aveva avuto l’incarico di governo da parte di Pertini conferito proprio a Ugo La Malfa. Fu difficile comprendere allora le motivazioni del PCI e credo che vi sia tuttora qualcosa da accertare sulle ragioni di quella decisione. E, tuttavia, in Ugo La Malfa l’impossibilità di proseguire nell’esperienza della solidarietà nazionale non modificava il giudizio su una eventuale riedizione della coalizione di centrosinistra -  “una minestra riscaldata”, era il suo giudizio - che non sarebbe stata in grado di affrontare i problemi del Paese.

Per la verità, la linea lamalfiana degli anni ‘70 era stata approvata dal partito, benché vi fossero vaste aree di esso che non condividevano l’idea che fosse necessario agli sviluppi della democrazia italiana agevolare l’inserimento, o meglio “la costituzionalizzazione” del PCI. Al massimo si condivideva, in quelle componenti del partito, la formula della solidarietà nazionale come una forma transitoria di governo dettata dall’estrema emergenza dell’economia e dell’ordine pubblico, ma sul traguardo ultimo, del resto mai esplicitamente enunciato da Ugo La Malfa, cui avrebbe dovuto condurre la solidarietà nazionale, nel partito vi erano valutazioni e impostazioni diverse.

Il problema si ripropose dunque nel 1983 anche se in modo non del tutto esplicito. Mio padre aveva annunciato, alla fine del congresso di Roma del dicembre 1978, la sua decisione di ritirarsi da tutti gli impegni politici, salvo – aveva detto – una situazione di grave emergenza democratica. Affermava che avendo contribuito a costruire, dopo il centrismo, il centrosinistra e, dopo il fallimento di esso, la solidarietà nazionale, egli riteneva di avere esaurito le sue possibilità di iniziativa politica. Non vi erano altre formule politiche – diceva – per le quali potesse impegnarsi. Se tutte si erano rivelate inadeguate, la crisi della democrazia italiana rischiava di essere inevitabile.  Spetta a voi più giovani – aveva concluso rivolgendosi ai quadri dirigenti del PRI – trovare una formula che possa aiutare a affrontare efficacemente i problemi del Paese.

Quando nel 1983, all’indomani del nostro successo elettorale, si pose il problema del governo, quella formula per me non poteva essere il centrosinistra rinnovato soltanto con l’assegnazione della presidenza a un esponente non della DC, ma di uno dei partiti alleati.

La questione venne portata in Direzione Nazionale e venne posta ai voti: sostenuta sia da Spadolini sia da Visentini, che in passato era stato uno degli oppositori più duri della politica di Craxi, la partecipazione al governo passò con una larghissima maggioranza. Vi furono – se ben ricordo - cinque voti contrari: il mio, quello del senatore Giovanni Ferrara, quello di Giorgio Medri, deputato di Varese, e non mi sovviene chi altri. Il partito aveva scelto la riedizione della formula di centrosinistra. Non perché c’erano da installare i missili a Comiso: questo risultato era acquisito non per le nostre posizioni ovviamente favorevoli, né per le posizioni di Berlinguer che ormai poteva tranquillamente essere contrario senza i problemi che gli sarebbero derivati se in quella fase il PCI fosse stato in maggioranza, ma perché il partito socialista era favorevole - perché Craxi era favorevole. Come anni dopo sarebbe successo per il Kosovo, il via a un governo a guida non democristiana avvenne in base a una garanzia piena di adesione dell’Italia alla politica estera occidentale. Che noi repubblicani fossimo a favore degli euromissili era ovvio e scontato: quello che non era affatto scontato, vista la posizione di molti partiti socialisti in Europa, era la posizione del PSI. Ma non fummo noi a condurre Craxi a quelle decisioni: furono le sue personali convinzioni, che su questo erano piuttosto vicine alle nostre, almeno in quella circostanza, rafforzate dal fatto che, schierando il PSI e il governo a favore degli euromissili, egli riusciva ad allargare il fossato che separava il PCI dal governo, rendendolo quasi insuperabile.

Che il problema della collocazione internazionale del PSI fosse più complesso lo si vide nel corso del sequestro dell’Achille Lauro e nel suo scontro con gli americani a Sigonella quando le decisioni di Craxi provocarono il plauso di Pajetta e di Capanna e costrinsero Spadolini alle dimissioni.

Fu giusta o sbagliata la posizione del partito in quella circostanza? Naturalmente è difficile dirlo, servirebbe un’analisi ben più complessa. Ma ci fu allora una seria discussione politica che investiva il presente e il futuro del partito. Certo è che, da quel momento, nelle successive tre elezioni si manifestò una progressiva flessione elettorale. Nelle elezioni europee dell’‘84 prendemmo, in alleanza con i liberali, poco più del 6%: sulla carta avremmo dovuto toccare insieme l’8%. L’anno dopo, nelle elezioni regionali del 1985, il PRI si fermò al 4 % e infine nelle elezioni politiche del 1987 scendemmo al 3,7%, non lontano da quel 3% che era stato il massimo preso da Ugo La Malfa e dal quale sembrava ci fossimo allontanati di slancio nelle elezioni del 1983.

La crisi italiana stava ormai investendo tutti i partiti e anche le istituzioni. Una volta caduto, due anni dopo, il Muro di Berlino la crisi non avrebbe più avuto alcun contenimento. La società italiana avrebbe avuto bisogno di forze politiche in grado di comprendere il malessere profondo che, seppur confusamente, emergeva. Purtroppo nessun partito seppe essere interprete quel malessere e raccogliere i consensi così ottenuti per trovare nuove soluzioni ai problemi del Paese.


Giorgio La Malfa

  9 agosto 2024

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