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Usa, prime riflessioni sul post-pandemia

In assenza di crisi mondiali, la storia politica americana insegna che le elezioni riflettono brutalmente il corso dell’economia. E l’economia sta cambiando. Una conseguenza è che tra i temi sui quali dovremo continuare a concentrare l’attenzione vi è il conflitto ormai non più nascosto con la Cina, che abbraccia insieme ideologia, principi e stretto mercantilismo; per converso, può presentarsi una rinnovata intesa con l’Europa e un “modus vivendi” con la Russia. La questione è se questa America guidata da Biden avrà dietro di sé la compattezza politica necessaria per svolgere il ruolo di perno centrale di questa costruzione.

Superato il picco della pandemia e la grande angoscia dei ritmi crescenti del contagio, anche l’America sta cambiando: adesso si tirano le somme e fenomeni inattesi, confermati da studi e analisi statistiche, attestano cambiamenti strutturali inaspettati ma già dirompenti nella società, a partire in particolare dal mondo del lavoro. Un primo interessante segnale viene dai dati del Dipartimento del Lavoro. Mentre seguivamo le statistiche del COVID, il sistema occupazionale ha sperimentato una diffusa rivoluzione, figlia del “telelavoro” ormai diventato la norma in molte professioni.

Il primo nuovo aspetto è la diffusione della cosiddetta “gig economy” che esisteva già prima dell’era del COVID ma che durante la pandemia ha preso piede sostituendo il lavoro tradizionale - e le aspettative sociali connesse - con la proliferazione di prestazioni d’opera precarie, senza previsione di durata ma con possibilità di pronta e nuda remunerazione: per intendersi, sul modello Amazon. L’attrattiva di questi modelli di lavoro è stata che sono subito apparsi innovativi e aggiuntivi, non sostitutivi di quelli tradizionali, come di fatto sono. Il rovescio della medaglia è che i lavoratori, costretti dalla pandemia, hanno accettato la precarietà, in attesa di un futuro più favorevole.

Il secondo fatto nuovo è che questo futuro sta facendo ora capolino in una misura inattesa, rivelata dal fatto che improvvisamente tantissima gente sta scegliendo di cambiare lavoro. Di colpo. Il telelavoro ha silurato la settimana standard di cinque giorni dalle 9 alle 17, ha azzerato il lungo “commute” in macchina o nella metropolitana, ha cancellato le incessanti riunioni e minimizzato i “viaggi di lavoro”. Il lavoro - ormai digitale - è stato spalmato lungo l’arco della giornata. E non è successo nulla, anzi, tutto funziona con risparmi crescenti sugli affitti delle aziende. Ciò ha provocato alcune conseguenze immediate: il costo degli immobili nelle grandi città, per esempio, una volta abolito il “commuting”, ne è stato decisamente influenzato; quartieri ricercati hanno perso valore, altri ne hanno guadagnato. Questo sconvolgimento del mondo immobiliare era atteso, e non ha destato sorprese.

La vera sorpresa, invece, è che la “forza di lavoro” professionale, essenzialmente cittadina e tendenzialmente stabile, ha scoperto grazie al telelavoro la libertà di vivere altrove che nelle vicinanze del posto di lavoro, e ha tratto le proprie conclusioni non solo per quanto riguarda il mercato immobiliare, ma anche per quanto attiene il mercato del lavoro. E questo è il fatto nuovo, inizialmente sfuggito anche all’osservazione degli esperti. All’inizio di una nuova amministrazione è comune, per esempio, che a Washington ci sia un avvicendamento di professionisti non solo della politica, ma anche delle industrie collegate; tuttavia non eravamo preparati a constatare nella cerchia dei conoscenti una vera migrazione inattesa e quasi simultanea di tante persone conosciute. Il fenomeno si è confermato su scala nazionale: secondo il Ministero del Lavoro, quattro milioni di americani hanno lasciato la loro occupazione nel solo mese di aprile. Non solo ciò segnala che deve esservi una buona offerta di lavoro, ma dimostra che la possibilità di cambiare senza dover effettuare trasferimenti difficili (casa, scuola, relazioni) ha di colpo generato questa catena di dimissioni, in tempi ancora incerti che avrebbero normalmente generato attaccamento a quanto già assicurato.

Il telelavoro ha cancellato il fattore località dagli elementi che condizionavano le scelte e rendevano non elastica la reazione dei lavoratori all’evoluzione delle loro condizioni. Di colpo, oggi - grazie al telelavoro - se si presenta un’offerta migliore all’altro capo della città, o anche all’altro capo del mondo, la si può accettare senza doversi assumere il peso di un trasloco, di una percorrenza quotidiana più scomoda, di una interruzione nelle occupazioni o negli studi per i membri della famiglia, e così via. La mobilità è cresciuta in modo esponenziale e si riflette in queste statistiche. Per converso, si sta ponendo a carico dei datori di lavoro la responsabilità di offrire condizioni economiche più attraenti e più competitive, rovesciando una tendenza in corso da decenni ed evidenziata dalla “gig economy”. Ma è cresciuta anche la mobilità fisica dei datori di lavoro: non serve più un nuovo grande ufficio nel distretto degli affari, basta affittare uno spazio quando - di rado - diventa brevemente necessario. E se vi sarà un vanteggio fiscale in uno Stato piuttosto che in un altro, ancora maggiore sarà l’incentivo a rivedere la scelta della localizzazione ufficiale dell’impresa. È una pagina che anticipa un futuro differente e potenzialmente molto dinamico, con un diverso rapporto di forza nel mondo del lavoro.


Franklin

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