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Presidenziali all’insegna del Covid

Lettera da Parigi


L’interminabile era del Covid, il cui esordio travalica ormai la soglia dei dodici mesi, va creando in Francia – forse ancor più che nel resto d’Europa – un effetto di innaturale dilatazione del tempo. Si è instaurato, in altri termini, come un «fermo-immagine» che congela l’intero dibattito mediatico attorno alla pandemia, con l’accantonamento di altre, pur rilevanti vicende domestiche ed internazionali.

In questi giorni, tuttavia, forse anche nell’intento di dischiudere qualche valvola di sfogo all’ansia crescente nella pubblica opinione, i principali mezzi di comunicazione si aprono a tematiche alternative: intorno all’insistente leit-motiv del virus, si sono intravisti alcuni primi spunti di pubblico dibattito fuori dal Covid, non sempre corrispondenti a logiche davvero prioritarie, per rilevanza sostanziale o per urgenza. Emerge, per esempio, il lancio di talune nuove causes non ancora célèbres, e forse destinate a non divenirlo mai: dalla controversa contestazione del personaggio di Napoleone e della sua statura, alla vigilia del bicentenario della sua morte a Sant’Elena (di cui vi ho già dato conto), sino alla proposta che nasce e fa discutere in seno soprattutto alla Gauche – di trasporre il dispositivo delle quote dalla parità di genere a quella di appartenenza etnica. Si dovrebbe cioè, secondo Audrey Pulvar (già influencer ed anchorwoman televisiva, creola della Martinica, come si sarebbe detto ai miei tempi, ed oggi assessore comunale di Parigi con funzioni di Vice-Sindaco), stabilire anche formalmente il divieto esplicito di tenere riunioni politiche o partitiche che non rispettino una aritmetica parità di rappresentanza delle minoranze razziali!... Un principio che ha creato in questo inizio di aprile tanto più clamore, ché la Pulvar è collaboratrice diretta – anche in funzione di trait-d’union con i movimenti ambientalisti – della sindaca di Parigi, la socialista Anne Hidalgo, che flirta oramai apertamente con l’idea di candidarsi alle Presidenziali del 2022, lavorando appunto su un’alleanza di tipo «rosso-verde», come si direbbe da noi, già salutata dal successo conseguito in occasione della recente riconferma della sua giunta, e sua personale, la scorsa estate.

Cresce in questo contesto, come è naturale, lo spazio riservato, all’interno e fuori del dibattito concentrato sulla pandemia, all’ormai prossimo avvio della campagna per il fatidico maggio 2O22. Tredici mesi appaiono ancora una eternità perché si possano formulare con un minimo di credibilità le prime ipotesi ed i primi pronostici dell’esito di una scelta che finisce col definirsi soprattutto nell’ultimo, decisivo semestre di campagna. Questo tanto per l’evolversi di tutti i tasselli che sottendono all’elezione presidenziale, quanto per la tumultuosa accelerazione della storia – la piccola e la grande – nelle società democratiche dell’Occidente. La stessa prepotente apparizione di Emmanuel Macron nel 2017 ed il suo successo, irruppero come un fulmine a ciel sereno a partire dai suoi primi annunci (ai primi di febbraio), e beneficiarono senz’altro – in zona Cesarini – di alcune inaspettate congiunture a lui favorevoli, come il brusco tracollo del candidato della destra Francois Fillon, inciampato alla vigilia del primo turno in grane giudiziarie infamanti, non si sa se grazie anche al concorso di «fuoco amico». La vittoria di En Marche creò, nell’arco di soli pochi mesi, un vero e proprio terremoto nella routine politica e istituzionale della Quinta Repubblica. Si era vissuti sino ad allora, malgrado i venti minacciosi dell’antipolitica che pur spiravano da vicino e dentro casa, nella schematica ed abitudinaria contrapposizione bipolare fra destra e sinistra, fra schieramenti (appartenenti, diremmo noi, all’arco costituzionale), in un dualismo corredato e corroborato dal «non scritto» patto repubblicano che sanciva – in ogni tornata elettorale locale o centrale – la conventio ad excludendum del Fronte Nazionale (oggi ribattezzato Rassemblement National) di padre, figlia e forse in futuro nipote Le Pen. La rivoluzione copernicana progettata da Macron, con la fondazione di un nuovo movimento politico né di destra né di sinistra (o meglio, nel contempo, erede delle tesi e dei programmi più meritevoli dell’una e dell’altra) si è fermato a metà e la movenza della République en Marche (la denominazione assunta attualmente, di cui ricorre in questi giorni il quinto anniversario dalla fondazione) ha perso molto del suo slancio, non appena si è trasformata in maggioranza parlamentare e si è data le forme e la struttura di un partito classico. Altrettanto è avvenuto a sinistra, dove il successo ottenuto dal transfuga del vecchio partito socialista, il «bolivarista» e tribuno del popolo Jean Luc Mélénchon, fondatore della France Insoumise, arranca per conservare, persino nei sondaggi meno sfavorevoli, una parte di quei consensi che lo avevano condotto a sfiorare il ballottaggio nel 2017 e gli avevano assicurato un proprio consistente gruppo parlamentare: forse anche per una consonanza imbarazzante di alcune linee programmatiche di fondo con quelle della destra radicale, all’insegna del sovranismo anti-europeo..

Malgrado questa parziale «normalizzazione», in senso tradizionale, del quadro politico, a complicare la prospettiva della campagna intervengono alcune controversie nuove, come la meno granitica identificazione del Paese nella Costituzione del ’58 e sue successive, ripetute modifiche, tanto sull’essenza del regime semi-presidenziale quanto sull’equità del sistema elettorale. Si lamenta in particolare la recente trasformazione del settennato all’Eliseo in quinquennato, a partire del referendum del 2000, con il conseguente vulnus ad un Parlamento che oramai viene eletto praticamente di conserva al Capo dello Stato con un effetto di trascinamento (di coat tail si direbbe oltreatlantico) tale da comportare un netto sbilanciamento, almeno iniziale, a favore del partito del Presidente e ad un infragilimento dell’originario, già precario, equilibrio fra Esecutivo e Legislativo. A ciò si aggiunga la legge elettorale di cui molti reclamano una revisione per favorire almeno una quota parte di proporzionale: una istanza alla quale lo stesso Macron non era parso indifferente, anche per le pressioni del centro moderato e del suo principale alleato del Modem (schieramento centrista di ispirazione cattolico-liberale), guidato da François Bayrou. Una delle riforme promesse, poi congelate a fronte dell’incalzare delle crisi, da quelle dei Gilets Jaunes e del terrorismo di matrice islamica, sino alla pandemia. Né la difficoltà di cambiare le regole del gioco nella fase già avanzata della partita lascia presagire che potrebbe essere ripresa in tempi brevi.

Più di ogni altro, l’elemento che sembra destinato a complicare ulteriormente il quadro politico dell’anno avvenire è quello di una possibile incrinatura (o peggio della sconfessione) del «pacte républicain», di quella conventio ad excludendum della destra estrema che tanto ha favorito in passato l’elezione all’Eliseo del Presidente: da Chirac a Hollande, passando per Sarkozy tutti i candidati hanno tratto vantaggio dalla versione in chiave francese della nostra tutela dell’ «arco costituzionale», tradottasi a volte in maggioranze «bulgare», come fu il caso della rielezione di Chirac, in contrapposizione diretta a Le Pen padre.

Non mi addentro nei meandri ancora pre-tattici dei primi preposizionamenti accompagnati da caute scaramucce, riservandomi di tornarvi nelle mie prossime lettere. Non posso però omettere di menzionare fin da ora, fra le anticipazioni che non sono sfuggite agli acuti commentatori di nostri quotidiani, come il Corriere della Sera ed il Foglio, l’interessante ritorno sulla scena politica nazionale (direi meglio sul «proscenio») di Edouard Philippe, antico sodale di Alain Juppé, già Primo Ministro per oltre tre anni di Macron. Osservo che la tempistica e le sedi di questo ritorno in «politica attiva» su scala nazionale dell’attuale sindaco di Le Havre sembrano essere stati calibrati ad arte, in perfetta coincidenza con il quinto anniversario della fondazione della Republique en Marche, la compagine politica che costituisce il nucleo centrale di quella «maggioranza presidenziale» in Parlamento di cui Philippe è stato nell’esecutivo da lui guidato il leale, dinamico ed elegante interprete.

A di là di questa, come di altre potenziali variabili, la cifra comune degli umori della politica, in questi giorni, è certamente quella che nessuno intende – a destra come a sinistra – far sconti al Presidente e che il giudizio sul suo bilancio complessivo non sarà esente da alcuna critica, anche impietosa. Da un quadro sanitario munito più di ombre che di luci, sino al mancato rispetto di un calendario di riforme promesse e non realizzate, per effetto soprattutto del premere delle emergenze, ci si batterà duramente contro un possibile incumbent (Macron tiene per ora ben coperte le carte sulla sua ricandidatura) che rimane tuttavia forte di un carisma e di una personalità di cui sono sprovvisti ad oggi i suoi possibili contendenti. Non va inoltre dimenticato che – a meno di possibili, ma non probabili rinvii causa Covid – una scadenza elettorale significativa come quella delle Regionali del giugno prossimo introdurrà nuovi ed imprevedibili elementi nella campagna presidenziale.

Un aspetto centrale che ci riguarda tutti in questa vigilia rimane comunque il comune quadro di riferimento europeo. Con il tramonto della Cancelliera Merkel (e con esso l’attenuazione del fulgore dell’astro tedesco), Macron rimane oggi il principale fra i massimi dirigenti dell’Unione a battersi pro-attivamente per il progresso della costruzione europea nell’intento di forgiare una «idea nuova d’Europa». In questo spirito ha contribuito a costruire un vero argine alle sterili e velleitarie tendenze sovraniste e populiste. Fra i tanti progressi, che vanno dall’abbandono della inflessibile disciplina del rigore sino alla coraggiosa assunzione di responsabilità di coordinamento e di iniziativa, ben al di là – come nel settore sanitario – della lettera dei Trattati, Bruxelles ha dato segni di vitalità e di dinamismo. Non lasciamo che, nella narrazione mediatica e nella percezione delle nostre pubbliche opinioni, dilaghino fino a prevalere le valutazioni di condanna che, pure, alcune falle di un sistema comune non ancora rodato e talvolta prigioniero di burocrazie tardigrade ed ingenue meriterebbero. Ovunque nel mondo e nel nostro Continente, i fantasmi del recente passato si aggirano temibili come prima e potrebbero, secondo una efficace espressione anglosassone, «rear their ugly heads»...


l'Abate Galiani


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